Il sale di questo mare – Tragedia e ribellione in Palestina

Annemarie Jacir, al suo debutto, confeziona Il sale di questo mare, un film di tutto rispetto, un film sulla drammaticità del ritorno ben sceneggiato e in grado di raccontare abilmente il senso di alienazione, in tutte le sue sfaccettature.

Soraya, ragazza di origini palestinesi ma residente a Brooklyn, decide di tornare nella terra dei suoi avi per sbloccare i soldi del conto corrente del nonno, che aveva abbandonato la propria terra natia a seguito della prima guerra arabo-israeliana. Questa guerra portò alla nascita di Israele e alla nakba (la catastrofe) palestinese del 1948. Fin dall’aeroporto le difficoltà che incontra sono sostanziali: dalle continue interviste per ottenere il visto, all’impossibilità di ottenere i soldi del nonno poiché i conti bancari dei palestinesi emigrati nel 1948 sono stati congelati. Soraya comincia quindi a sviluppare un senso di ribellione e a voler reclamare anche solo simbolicamente il suo diritto a una nazione.

Essenziale nel percorso di crescita di Soraya risulta essere Emad, cameriere in cerca di un visto per lasciare Ramallah e andare a studiare in Canada. Permesso che gli viene più volte negato. Triste realtà di molti giovani arabi e non, caduti vittima dell’orientalismo e dello scontro di civiltà post 11 settembre. Il rapporto tra i due giovani cresce ed evolve lungo il film portandoli a intraprendere azioni di aperta ostilità nei confronti dell’occupante israeliano. Azioni che alla fine chiederanno un conto da pagare.

Fonte immagine: NPR

Jacir, come nei suoi film successivi, è abile nel raccontare una storia apparentemente piccola ma dallo sguardo molto più ampio. Dietro la storia dei due protagonisti infatti, si cela molto altro: la ribellione dei due giovani, l’opposto sentimento che provano nei confronti della Palestina, tra chi vorrebbe andarci a vivere e chi vorrebbe emigrare, il potere dei ricordi che si scontra con una realtà cinicamente differente. Quelle raccontate da Jacir sono tematiche che riflettono abilmente le problematiche di un contesto tanto peculiare quanto drammatico.

La Palestina, attraverso la cinepresa della regista, è come un animale in gabbia, domato, costretto in cattività ma che in fondo non ha ancora perso la sua indole di libertà. Non ha ancora rinunciato a poter scegliere una vita diversa e, se trova un supporto ai suoi sogni, è pronta a lottare per questo.

La speranza e la liberta però sono una spada di Damocle che pende sulla testa dei due protagonisti e del Paese intero. Una mannaia pronta a essere calata sul capo di chi sogna troppo in un contesto che è pur sempre una gabbia e una prigione. Dopo il sogno di libertà ti ritrovi, infatti, a svegliarti con la testa appoggiata alle fredde sbarre d’acciaio che ti tengono lontano dal poter rendere i sogni una realtà.

Luigi Toninelli

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