Return to Homs: la strada senza ritorno della guerra civile siriana

Return to Homs di Talal Derki è un documentario girato tra il 2011 e il 2013 in Siria: segue il viaggio di due amici le cui vite sono state travolte dalla guerra civile. Abdul Baset al-Sarut è il portiere della nazionale giovanile siriana di calcio che a soli diciannove anni diventa leader della rivoluzione; Osama al-Homsi invece è un giornalista pacifista ventiquattrenne che segue l’amico documentando l’impresa e che arriverà ad essere arrestato dai servizi segreti militari per le sue idee e la sua telecamera, occhio testimone di realtà ingiuste e dolorose.

Abdul Baset al-Sarut rappresenta la figura del giovane carismatico, manifestante non violento, che arriverà ad imbracciare le armi per combattere il regime oppressivo di Bashar al-Assad e diventare leader della resistenza: la sua presenza nel film ha reso il documentario di Derki capace di raccontare tragedie attraverso un testimone-combattente insostituibile. Il messaggio e la voce di Baset al-Sarut arrivarono nel 2014 fino al Sundance film festival dove Return to Homs vinse come miglior documentario e nello stesso anno primo anche al Middle East Now a Firenze.

Ritorno a Homs rappresenta la possibilità di portare il cinema nelle zone di conflitto e le zone di conflitto sul grande schermo come narrazione di una guerra civile che sembra diventare mondiale e di cui lo spettatore, oltre che raccogliere fatti sanguinosi e terribili, diventa ascoltatore: può udire il canto di Baset al-Sarout che si trasforma in colonna sonora del film così come percepire i battiti del cuore delle persone che aumentano o diminuiscono ad ogni attacco o esplosione.

La prima parte del film potrebbe quasi definirsi una rappresentazione di una fiorente città siriana ma ben presto si notano i carri armati nelle strade e i soldati sui tetti, preludio alla tensione che continuerà a salire durante tutta la durata del documentario. Tensione che alimenta anche il rapporto che c’è tra la popolazione civile e il leader Bashar al-Assad, eletto per cause di forza maggiore dopo la morte del padre, che era stato al comando del paese per trent’anni prima di lui. A quell’agitazione iniziale in cui si vede Baset saltare, cantare e proclamare inni di pace, la fine del film contrappone la desolazione: Homs diventa una città fantasma distrutta dai bombardamenti. Le prime scene, quindi, danno adito a pensare a un possibile cambiamento: Abdul Baset al-Sarut attira la folla non solo in quanto celebrità locale ma perché convinto che il paese possa prendere una direzione diversa senza l’utilizzo della violenza. In quelle immagini il calciatore viene identificato come leader indiscusso della manifestazione pacifica. La reazione di Assad al movimento, però, dimostra esattamente il contrario: i militari reprimono la protesta non risparmiando innocenti e bambini, incluso Osama, il cameramen, che viene arrestato e scompare nel nulla.

I colpi di scena e le morti ingiuste non fanno parte di una rappresentazione: il documentario diventa una denuncia di una tragedia tangibile che non ha nulla a che vedere con effetti poetici. In Ritorno a Homs non c’è volontà di emozionare lo spettatore con dialoghi montati artificiosamente: Talal Derki si limita ad attestare dei fatti ad una ragionevole distanza da cui lo spettatore fatica ad immedesimarsi ma non può che rimanere sconvolto e informarsi su eventi che prospettive sbagliate spesso distorcono.

La strada per Homs, quella a cui il titolo del film si riferisce, è la stessa che il regista percorse molte volte per tornare a casa fino al giorno in cui si trovò nel bel mezzo di una protesta popolare, protesta di cui Sarut era il portavoce: da quel momento Homs diventa la città del cuore, meta a cui avrebbe sempre voluto fare ritorno e fil rouge di tutto il documentario. La tensione nel film è palpabile: nessuno è al sicuro e temiamo per la sicurezza del leader protagonista durante tutta la proiezione, soprattutto quando iniziano a cadere anche i suoi amici e parenti: fatti che rendono al-Sarut ossessionato dal martirio, motivo delle sue canzoni e dei suoi discorsi.

Delle vittime di cui il documentario è testimone non vediamo solo le sanguinose conseguenze ma i vuoti che lasciano; vuoti che mettono a fuoco l’insensatezza demoralizzante della violenza e l’inutilità di una guerra in cui l’unica speranza di vincere per i ribelli è l’intervento di aiuti esterni a loro favore. La desolazione di Homs diventa desolazione del cuore.

Erika Nizzoli

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