Jang-e jahani sevom (World War III) di Houman Seyedi: metafinzione su disuguaglianza e cinema
Film premiato a Venezia nella categoria Orizzonti, World War III di Houman Seyedi è uscito nelle sale in Iran nel 2022: è il primo lungometraggio realizzato in collaborazione con un canale di streaming, Namava, ed un esempio mozzafiato di metacinema.
In una delle prime scene il protagonista, Shakib, interpretato da Mohsen Tanabandeh, sale su un veicolo, un furgone somigliante a quelli per il trasporto di mercanzia o bestiame, insieme ad altri uomini, vecchi e giovani. Nel frammento successivo lo vediamo lavorare in mezzo al fango, trasportando grosse travi di legno e successivamente posizionando del filo spinato sostenuto da dei pali. Attimi più tardi scopriamo che Shakib si trova sul set di un film che ripercorre i delitti commessi da Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale e sta lavorando per costruirne la scenografia. Il protagonista non sembra essere al corrente di quello che sta facendo, semplicemente esegue quello che gli dicono: è un uomo, che più tardi nel film, si definirà “illetterato” e non ha fissa dimora; si mantiene con lavori saltuari. Shakib non ha mai superato la perdita di moglie e figlio in un terremoto accaduto anni prima, ma non è solo: da due anni ha conosciuto una donna sordomuta, Ladan (Mahsa Hejazi), che ha riportato speranza nella sua vita e che è diventata una delle ragioni di sopravvivenza. Senza aspettativa alcuna a Shakib viene affidato il ruolo di Hitler: da lavoratore di manovalanza ordinaria, che lo costringeva a dormire in condizioni inaccettabili e inumane, viene trasferito in una casa costruita appositamente per il set e gli vengono concessi altri privilegi, da autentico attore. Quando Ladan scopre le conquiste di Shakib si presenta sul suo posto di lavoro e gli chiede di stare con lui ma il piano di nascondere la compagna nella nuova dimora avrà risvolti drammatici.
Una delle prerogative della settima arte è quella di parlare di sé: da Otto e mezzo 8½ di Fellini a Close Up di Abbas Kiarostami fino al più recente Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, nelle sale non è mai mancato un film che avesse come protagonista sé stesso. In World War III il mezzo mediante il quale si parla di cinema nel cinema viene portato ad un altro livello: Seyedi non lo usa come dettaglio per arricchire la trama, lo fa diventare lo strumento di vera propria critica per riflettere sulle disuguaglianze sociali e quelle che affliggono l’industria del cinema. La troupe, il set, tutto ciò che viene visto attraverso l’obiettivo è artefice e causa di ingiustizie, persino la storia è tratta da fatti crudeli e reali risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Houman Seyedi non si risparmia nello svelare l’altro lato della medaglia della produzione cinematografica. Questa industria artistica, come tante altre, è fatta anche di squali, pronti ad abbandonare ogni scrupolo quando si tratta di ottenere la miglior sequenza o immagine per la propria opera e più di una volta, probabilmente, si è sentito parlare delle condizioni dei lavoratori sul set cinematografico e dello sfruttamento degli stessi. In World War III il romanticizzare il ruolo di registi e produttori, come quello di persone (prevalentemente uomini) a cui è stato offerto il dono di poter creare opere d’arte come fossero visionari e geni viene bandito. Con questo, però, Sayedi, non parla meramente di industria cinematografica ma fa un parallelismo con l’ingiustizia sociale, rimanendo fedele sempre e comunque all’autocritica del film.
World War III è un lungometraggio che difficilmente si può circoscrivere a un genere ma se si dovesse incasellare sarebbe tra un thriller e un horror: non manca suspense e le scene sembrano rincorrersi in eventi che per quello che è il film che si sta girando nel film, ovvero quello sulla Seconda Guerra Mondiale, potremmo aspettarci, se conosciamo gli eventi storici accaduti ma che improvvisamente si lancia in passaggi ancora più strazianti perché alla storia che sappiamo noi si aggiungono passaggi strazianti che portano il film a toccare alti livelli di drammaticità.
Non è un caso che Seyedi abbia deciso di far aprire il film con una frase di Mark Twain: su schermo nero, font bianco, leggiamo
«History doesn’t repeat itself, but It often rhymes» (la storia non si ripete, però spesso fa rima con se stessa).
Erika Nizzoli