La disapora libanese in Senegal

L’atmosfera da Farid si fa intensa quando, un giovedì sera qualunque, parte la musica a tutto volume e una ragazza dall’abito colorato e svolazzante inizia a ballare passando da un tavolo all’altro. La voce di Fairuz che rimbomba nelle orecchie, i piatti di hummus, tabuleh e fatah con un immancabile profumo di aglio, i volti di libanesi di tutte le età che chiacchierano in arabo a voce più o meno alta, rendono davvero difficile ricordarsi di trovarsi a Dakar, in Senegal a più di 5 mila km da Beirut.

Oggi, più di 30 000 Libanesi vivono in Senegal e si tratta di una delle più influenti diaspore nel paese. Non solo per una questione di radicamento – la migrazione libanese a Dakar è una delle più antiche in territorio africano – ma anche per il loro peso economico sul mercato di questo paese dell’Africa Occidentale.

Il Libano è un paese che è stato caratterizzato da una forte diaspora in diversi momenti della sua storia, fenomeno che ha portato cittadini libanesi a installarsi in tutti gli angoli del globo, dal Sud America all’Europa. Secondo le ricostruzioni, è nel 1860 che il primo commerciante libanese sbarca in Senegal, ma è soprattutto con l’inizio del secolo scorso che il processo di migrazione verso l’Africa Occidentale, e in particolare verso il Senegal e la Costa d’Avorio, si è intensificato. L’intervento francese dopo la Prima Guerra Mondiale nel 1919 (all’epoca il Libano era una provincia dell’Impero Ottomano) ha reso più trafficata questa via migratoria, prima percorsa solo da pochi pioneri. Con il passare del tempo, le esperienze migratorie libanesi sono state sempre più caratterizzate dalla loro dimensione familiare, con un primo individuo che si spostava e che poi organizzava il trasferimento anche del resto della famiglia. Il fatto che la lingua ufficiale del Senegal sia rimasta il francese anche dopo l’indipendenza, ha reso più facile la permanenza e l’installazione dei libanesi in tutte le ex colonie dell’Africa Occidentale.

La maggior parte dei membri della comunità libanese presenti in Senegal è originaria del Sud del paese dei cedri, in particolare dalle città di Tyr e di Nabatyé. Anche se Dakar è senza dubbio il polo principale di concentrazione, al loro arrivo i libanesi non hanno esitato a penetrare anche all’interno del paese, spesso molto lontano dalla capitale. Un esempio della presenza storica anche al di fuori dell’ambiente urbano di Dakar può essere ritrovato in città come Diourbel o Kaolack, il cui ruolo centrale nella produzione dell’arachide ha costituito un fattore di forte attrazione, finendo per diventare una delle prime principali attività economiche a cui si sono dedicati i libanesi in Senegal.

Bandiera del Libano ai piedi del Monument de la Renaissance Africaine, uno dei controversi simboli della città di Dakar

Nonostante i primi arrivi sembrino quindi rimontare alla seconda metà dell’Ottocento, le cifre rimangono abbastanza basse nei primi anni del ventesimo secolo: nel 1930 i libanesi in Senegal sono circa 2000. Per altro, dopo il fallimento della monocultura di arachide, conseguenza anche della grande siccità degli anni ’70 e ’80, molti libanesi che ricoprivano il ruolo di intermediari tra i commerci francesi e quelli locali, si sono spostati verso la più promettente Costa d’Avorio. Un fatto curioso è che questo spostamento nella vicina Abijan non è stato l’unico flusso migratorio in uscita dal Senegal: sarà infatti proprio questa ondata di siccità a portare una quantità inusuale di cittadini senegalesi verso l’Italia.

I libanesi rimasti invece hanno saputo adattarsi al cambiamento del panorama economico senegalese e hanno iniziato a dedicarsi ad attività commerciali in una vasta gamma di settori: tessuti, borse, mobilio. Alcuni di loro hanno conosciuto un vero e proprio “sogno senegalese” che non ha nulla da invidiare a quello americano tanto è grande il successo che hanno raggiunto. Verso Les Almadies, un quartiere molto benestante a nord di Dakar, ecco una serie di hotel 5 stelle tutti di proprietà di questa comunità, così come il bellissimo giardino dell’ambasciata libanese dove si tengono spesso ricevimenti mondani intorno a chawarma di qualità.

Dopo l’agricoltura e il mondo rurale durante il periodo della colonizzazione e il commercio e i trasporti durante i primi anni di indipendenza, la comunità libanese ha investito anche nel settore dell’industria. Si può dire che la giovane generazione, resa forte in alcuni casi dalla tripla nazionalità – libanese, senegalese e francese – di alcuni, abbia in qualche modo rivoluzionato il secondo settore. Si annoverano in particolare alcune famiglie, il cui nome è associato alle maggiori industrie e imprese chiave per il settore produttivo del paese.

La famiglia Fares per esempio è considerata come detentrice di una delle più grandi fortune del Senegal. Lanciatasi in un primo momento nell’edilizia (Batimat, Batiplus sono nomi molto evocativi del settore delle costruzioni senegalese) si è poi diversificata nella branca alimentare (Siagro) per raggiungere traguardi senza precedenti nel settore dell’acqua potabile, con il gruppo Kirène e con l’indiscusso marchio di succhi locale, Pressea. La Kirène è considerata una delle storie di successo più interessanti del Senegal perché è stata capace di sbancare la concorrenza francese e imporre una produzione locale su un mercato fortemente sbilanciato a causa delle ingenti importazioni.

Anche la famiglia Kaawar rappresenta una di queste storie di successo. Nato nel 1960 a Dakar, Jalal Kaawar è il re del design degli interni e della decorazione in Africa, titolo che gli è stato trasmesso da Fakhreddine, suo padre. Jalal dirige l’impresa Orca, che possiede 25 negozi in diversi paesi africani come Benin, Burkina Faso, Camerun, Gambia, Mali, Mauritania solo per citarne alcuni.

Per non parlare della famiglia Omaïs, presente in tutta l’Africa dell’Ovest, arrivata a Dakar fin al XIX secolo. Youssef, che vive a Dakar, ha fondato nel 1981 il gruppo Patisen (Chocopain), che fabbrica e distribuisce una moltitudine di prodotti ad alto consumo per le abitudini alimentari senegalesi: creme spalmabili, maionese, bibite, sale.

Al di là della dimensione economica, alcuni membri della comunità libanese hanno anche deciso di mettersi in politica. La nomina dell’ecologista Ali El Haidar come ministro nel governo di Abdoul Mbaye, il 3 aprile 2012, è stato il coronamento di questo ingaggiamento politico dei senegalo-libanesi. Ma prima di Haidar, Samir Abourizk era stato il primo senegalo-libanese a creare un partito politico: “Democrazia cittadina”, dopo aver militato a lungo nel partito socialista (PS).

Per altro il Senegal non è solo luogo di elezione per fare successo e per residenze di lungo periodo: molti dei libanesi che lavorano in altri paesi della regione finiscono per passare le vacanze a Dakar, anche in ragione dei costi più dei voli decisamente più attrattivi rispetto a quelli per Beirut.

Haïdar El Ali (a destra), ex ministro senegalese dell’Ambiente e poi della Pesca, a fianco del presidente Macky Sall, a Kayar, nel 2014. Il militante econologista aveva fatto della lotta contro la pesca illegale una delle sue principali battaglie (Seyllou; Fonte: AFP)

Oggi siamo alla terza generazione di libanesi in Senegal. Secondo una parte crescente di osservatori, si tratta di libanesi che non vogliono più sentirsi etichettare come parte di una comunità altra, ma che si sentono semplicemente senegalesi. Le vecchie generazioni si sono impegnate a mantenere e perpetuare le tradizioni legate al proprio paese di origine, ma l’attuale generazione che “non conosce che l’Africa” sembra essere abituata a una diversa rielaborazione delle proprie origini. Molti di loro non parlano neanche più l’arabo e si esprimono in wolof o in francese. Nonostante questo, spesso risulta difficile che vengano considerati una parte integrante della società senegalese.

In effetti, malgrado l’importante giro di affari della comunità e l’apparente convivenza fianco a fianco, esistono conteziosi che si trascinano dall’epoca coloniale e che portano una larga parte della società senegalese a puntare il dito contro questi – a volte troppo – ingombranti attori economici. Secondo certi resoconti storici infatti, il colonizzatore francese avrebbe riservato uno spazio privilegiato alla comunità libanese all’interno del commercio dell’arachide, tagliando fuori la borghesia senegalese e impedendo a quest’ultima di prosperare e di affermare una propria classe media. Dall’altro lato, i libanesi non hanno avuto per molto tempo il diritto di frequentare le moschee dei senegalesi, di fare politica o di costituire sindacati. Questa esclusione dalla sfera sociale ha fatto sì che la loro indubbia potenza economica non si sia tradotta sul piano politico, andando a creare un distacco e linee di demarcazione comunitarie che si trascinano ancora oggi.

La diffidenza dei “senegalesi” viene riportata anche in certa chiusura della comunità libanese che permane in gran parte endogama e chiusa su se stessa. La quasi esclusiva frequentazione di ristoranti libanesi e la presenza di scuole con quasi tutti gli studenti libanesi costituiscono delle realtà che concorrono nel rafforzare una percezione di distanza spesso interpretata come un rifiuto di condividere a pieno i ritmi, i luoghi e le abitudini di vita del paese. Tuttavia, come già tempo fa è stato mostrato dal film documentario di Laurence Gavron, “Nar bi / Loin du Liban”, le differenze e le distanze tra senegalo-libanesi e il resto dei compatrioti si pongono molto più spesso in termini di classe economico-sociale che di origine geografica o di vicinanza culturale.

E in effetti, il listino dei prezzi della maggior parte dei ristoranti libanesi a Dakar, sembrerebbe confermare questa interpretazione. Farid, forse il ristorante libanese più famoso di Dakar, non fa eccezione. Mi guardo intorno, seduta nel cortile mentre ascolto le ultime note di Fairuz e mi ricordo di quando prima di partire, cercavo di prefigurarmi cosa avrei trovato in Senegal. Mi chiedevo se la regione MENA, a cui sono sempre stata molto legata, mi sarebbe mancata. Non pensavo che qui avrei trovato un piccolo angolo di Libano che, seppur forse molto fedele a sé stesso, è aperto a chiunque voglia sentirsi a Beirut anche solo per una sera, senza bisogno di prendere un aereo.

Elena Sacchi


Fonti

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