Il cinema palestinese: storia di un’industria che resiste

Se dovessimo comparare la profondità storica del cinema palestinese con quella di altri paesi del mondo arabo, sicuramente il cinema palestinese non sarebbe annoverato tra i più storici della regione. Tuttavia, quella del cinema palestinese è una storia di resistenza e capacità di trarre dal dramma la migliore arte possibile. Per questo motivo, abbiamo deciso di cominciare questo percorso alla scoperta del cinema arabo proprio con un focus storico sul cinema palestinese e sulla sua straordinaria capacità di creare gemme da lacrime e disperazione.

Come gran parte dei paesi della regione, la Palestina scopre il cinema grazie ai fratelli Lumière che sul finire dell’Ottocento inviarono cineoperatori a documentare questi “paesi esotici”. Nel 1897 infatti, a Giaffa e Gerusalemme, Jean Alexandre Louis Promio girò alcune scene proprio nelle due città. Ne seguirono poi alcuni documentari girati da registi ebrei girati all’inizio del Novecento. Il primo film a essere considerato come palestinese arrivò nel 1935 quando Ibrahim Hassan Sirhan documentò il viaggio del re saudita Abdulaziz bin Abdul Rahman Al Saud in Palestina. Sirhan, che aveva comprato la propria cinepresa per cinquanta lire a Tel Aviv e aveva appreso come utilizzarla attrraverso manuali d’istruzione, entrò presto in contatto con Jamal al-Asphar: insieme i due uomini sono considerati a oggi i fondatori del cinema palestinese. La prima opera a due menti e quattro mani fu Realized Dreams (1940), un documentario di denuncia sulla condizione degli orfani palestinesi. Ai due fu poi commissionato, per 300 lire palestinesi, un documentario su Ahmad Hilmi Pasha, un membro del Supremo Comitato Arabo. Sirhan, assieme a Ahmad al-Kilani, che aveva studiato cinema a Il Cairo ì, fondò anche il primo studio di produzione cinematografica in Palestina: Studio Palestine (1945). Altri autori contribuirono a plasmare un embrionale cinema palestinese, tutte le opere di questo periodo andarono però perdute.

La data che più di tutte segna la svolta epocale per il popolo palestinese è quella del 1948: in questo anno infatti, a seguito della formazione dello stato israeliano e alla sconfitta araba nella prima guerra arabo-israeliana, oltre 700.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case, è questa la Nakba palestinese, la catastrofe, un’esperienza traumatica e condivisa da tutto il popolo palestinese divenuta il punto di contatto delle memorie palestinesi e il punto di partenza per la cinematografia moderna in questa terra. L’evento drammatico della Nakba ebbe effetti devastanti sulla società palestinese (e di conseguenza sulla sua cinematografia): gli sforzi cinematografici cessarono per quasi due decenni e i registi palestinesi si fecero promotori della creazione di un’altra “industria cinematografica”, quella giordana. Lo stesso Ibrahim Hassan Sirhan fu coinvolto nella realizzazione del primo film giordano: The Struggle in Jarash (1957). L’epoca che intercorse tra il 1948 e il 1967 infatti, data la sua caratura drammatica e traumatizzante, fu un’epoca priva di produzione cinematografica, l’epoca del silenzio, la seconda era del cinema palestinese dopo quella fondativa di inizio secolo.

Il cinema palestinese tornò ad aver voce solo nel 1968 inaugurando una terza era. Anche in questa occasione fu un evento drammatico a darei impulso al cambiamento: quello della Naksa, la ricaduta, causata dalla cocente sconfitta degli eserciti arabi nella guerra dei sei giorni. Molti cineasti al di fuori della terra natia, principalmente ad Amman e a Beirut, cominciarono a produrre “film di resistenza” incentivati e finanziati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dagli altri partiti-milizie desiderosi di farsi promotori della causa palestinese. Venne così creato il Gruppo Cinematografico Palestinese. Quest’epoca divenne nota come l’epoca del cinema in esilio, o del cinema rivoluzionario (1968-1982). Il primo film prodotto in quest’epoca fu Say No to the Peaceful Solution (1968), un chiaro riferimento al pensiero politico della leadership palestinese dell’epoca. Il regista simbolo di quest’epoca, e del Gruppo Cinematografico Palestinese, fu Mustafa Abu-Ali che seguì la leadership dell’OLP nelle sue peregrinazioni regionali e produsse assieme al gruppo di registi vicini all’Organizzazione oltre sessanta film sulla questione palestinese. I registi durante questi anni si trovarono a operare nel contesto della guerra civile libanese (1975-1990), tuttavia, nonostante tutte le difficoltà furono in grado di creare un archivio cinematografico palestinese per consolidare e formare un’identità storico-artistica palestinese e per diffondere il cinema palestinese oltre i sostenitori della causa stessa. Molti film di questo archivio andarono perduti nel corso del trasferimento a Tunisi che l’OLP fu costretto a mettere in pratica poiché cacciato dal Libano per il ruolo svolto nel corso della guerra civile. Alcuni di questi film che in molti credevano andati perduti per sempre, ricomparvero successivamente nell’archivio delle Forze di Difesa Israeliane. Durante quest’epoca fu prodotto un solo lungometraggio: la trasposizione cinematografica di Ritorno a Haifa di Kanafani nel 1982.

La quarta e ultima fase del cinema palestinese ebbe origine nel corso degli anni Ottanta, un’epoca segnata dalla crisi economica, dall’aumento degli insediamenti israeliani in terra palestinese e dalla prima intifada. Nonostante in quest’epoca il cinema venne accantonato, la produzione di lungometraggi non si fermò completamente, anzi, un crescente numero di registi decise di ritornare in patria e iniziò a lavorare a nuovi progetti. Ne è un esempio Michel Khleifi di ritorno dal Belgio e insediatosi a Nazareth. Quest’epoca è oggi conosciuta come l’epoca del ritorno a casa e vede la nascita di nuovi e importanti registi, registi in grado di farsi conoscere anche al di fuori della Palestina: un esempio su tutti è rappresentato dal celebre Elia Suleiman che con il suo folgorante film d’esordio Chronicle of a Disappearance (1996) vinse premi a livello internazionale e ottenne per la prima volta nella storia una distribuzione negli Stati Uniti. Le difficoltà che questi registi ebbero dal loro ritorno a casa (e continuano ad avere) furono soprattutto dovute alla difficoltà nell’ottenimento dei permessi per raccontare le storie che desideravano, permessi che in un contesto di forte controllo da parte israeliana non vennero (e non vengono) sempre concessi.

Dalla famiglia Bahri a Elia Suleiman passando per Annemarie Jacir (di cui abbiamo già recensito due film “Il sale di questo mare” qui e “Quando ti ho visto” qui) e ancora Hany Abu-Assad (di cui abbiamo recensito “Paradise Now” e “The Idol“), senza tralasciare i gemelli Tarzan e Arab Nassser (arrivati in Europa con Gaza, mon amour del 2021) oggi il cinema palestinese è in grande spolvero nonostante le difficoltà a girare i film in Palestina e a diffondere i propri prodotti a livello internazionale. La cinematografia palestinese trova nel dramma della propria storia la forza per confezionare film quasi sempre di alto livello, film manifesto e di resistenza col coraggio di essere scomodi come poche industrie della regione riescono ancora a fare.

Luigi Toninelli

Fonti:

  • Dabashi Hamid, “Dreams Of A Nation: On Palestinian Cinema”, Verso Books, London, United Kingdom, 2006.
  • Gertz, Nurith; Khleifi, George, “Palestinian Cinema: Landscape, Trauma, and Memory”, Indiana University Press, 2008.
  • Hend Alawadhi, “On What Was, and What Remains: Palestinian Cinema and the Film Archive”, The IAFOR Journal of Media, Communication and Film, Volume 1, Issue 1, Summer 2013.

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