Dirty Difficult Dangerous : un film libanese, mediterraneo o universale?
Dirty Difficult Dangerous è il secondo lungometraggio del regista di origine libanese Wissam Charaf. In linea con la sua prima produzione Caduto dal cielo (2016), le tematiche trattate restano legate a una dinamica di denuncia delle ingiustizie sociali, ma in questo secondo film Charaf cambia i toni, dimostrandosi capace di presentarle in un modo nuovo, leggero e senza dubbio efficace.
Dirty Difficult and Dangerous si presenta all’inizio come un film romantico, per poi mutare più volte di registro e di genere assumendo l’aspetto di una commedia, e finendo persino per colorarsi di una patina di realismo magico.
Eppure l’ironia, l’esagerazione e persino il fantastico sono utilizzati come modelli narrativi che si sovrappongono ma che non provocano mai una perdita di senso della realtà raccontata. Il mantenimento di questo legame con la realtà permette alle storie dei protagonisti di essere sempre trattate con delicatezza e dignità.
La pellicola racconta la storia d’amore tra Mehdia e Ahmed. Lei, una donna di origine etiope che racchiude nel suo personaggio un’intersezione di vulnerabilità: il fatto di essere donna, il fatto di essere nera, il suo essere vittima del sistema della Kafala (di cui avevamo parlato qui). Lui, rifugiato siriano con del metallo in corpo, nuovo arrivato in una società libanese chiusa e ostile, anche a causa di decenni di immigrazione palestinese. Ahmed si ritrova a sopravvivere rivendendo dei materiali di recupero: il ritmo stesso del film sembra essere scandito proprio dalla sua voce che ripete ininterrottamente la frase utilizzata con Mehdia come segnale per incontrarsi in segreto: hadid, nuhas, battariaat! (ferro, rame, batterie!).
La marginalità nella marginalità
La marginalità ricopre quindi un ruolo importante in questa pellicola. Tuttavia, il rischio della decisione di dare spazio a temi di denuncia sociale è quello di cadere in una rappresentazione in cui il marginalizzato è una sorta di un personaggio stereotipato, che lo spettatore è già in grado di prefigurarsi. Questo tipo di rappresentazione infatti sembra essere diventata una sorta di moda per il mondo cinematografico, come suggeriscono anche i ‘diversity standards’ che saranno aggiunti nel contesto degli Oscar 2024 come criterio di eleggibilità per le produzioni. Tale critica verso l’attenzione al racconto del margine non vuole delegittimare i diversi (e spesso validi) tentativi di dare voce a chi non ne ha, ma piuttosto
riconoscere che la decisione di portare sul grande schermo storie di esclusione non ha niente di particolarmente originale.
Quello che rende questo film davvero innovativo è piuttosto la decisione di parlare del margine vestendolo di una nuova geografia, identificandolo in un contesto che è esso stesso marginale: il Libano. La scelta di Charaf sembra volerci ricordare che l’esclusione è un fenomeno universale, legato a rapporti di potere e dominazione che regolano le relazioni all’interno di qualsiasi paese / società.
Se si parla di margine, si parla anche di indesiderati. Di persone che sono indesiderate in una società che le considera tali solo quando escono dal ruolo che è stato loro predisposto. Mehdia per esempio è necessaria alla famiglia libanese presso cui lavora solo finché resta in casa, senza fare prova di possedere una propria soggettività. Invece, Ahmed, in quanto siriano deve sottostare al coprifuoco imposto dal governo libanese. Ed è proprio nel momento in cui esce dai rigidi schemi (o orari in questo caso) in cui è prevista la sua esistenza nella sfera pubblica che la società inizia a rigettarlo e ad allontanarlo anche fisicamente:. Ahmed si ritroverà a scappare da un gruppo di ragazzi libanesi che lo avevano aggredito dopo averlo trovato per strada dopo lo scattare del coprifuoco.
Eppure la condizione di indesiderabilità non è statica, bensì cambia a seconda dello spazio e a seconda del tempo, anche solo passando da un quartiere all’altro. Mehdia porta addosso questa etichetta quando si trova nel campo di rifugiati siriani, ma nell’appartamento delle amiche di Mehdia è ad Ahmed che tocca portarne il peso. Invece in ospedale, entrambi i due protagonisti diventano “desiderati” agli occhi dei giornalisti “occidentali”:
liberi del rifiuto che sperimentano quotidianamente, ma tragicamente ingabbiati in una nuova categoria imposta dall’esterno.
È attraverso uno sguardo esterno che possiamo meglio osservare le dinamiche interne di un paese: pur non essendo libanesi, Mehdia e Ahmed descrivono perfettamente la società libanese contemporanea. L’appartenenza dei protagonisti alla categoria dei ‘migranti’ mette lo spettatore nella condizione di pensare il movimento, o meglio di pensare attraverso il movimento: la loro estraneità alla società libanese permette di decentrare lo sguardo e, paradossalmente, di adottare una postura critica rispetto ai fenomeni sociali catturati dalla telecamera. In questo caso la migrazione rappresenta per lo spettatore una porta di entrata privilegiata per cogliere le crude dinamiche della società di (non) accoglienza che, con un tocco di originalità supplementare, è in questo caso mediorientale.
Kafala e immigrazione siriana : due facce della migrazione in Medio Oriente
La realtà sociale catturata da Charaf è densa, composta da una stratificazione di problematiche che diventano l’oggetto di una critica sottile ma impietosa. La postura del così detto Occidente rispetto al Medio Oriente, le ONG, le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza si ritrovano nell’obiettivo della camera dell’attento registra. Ma il sistema della Kafala e la discriminazione nei confronti dei siriani in Libano sembrano rappresentare le tematiche più urgenti da decostruire per Charaf.
Con una precisione narrativa che rende certe scene del film quasi didattiche, il direttore racconta del sistema di sfruttamento di cui è vittima Mehdia. Nella sua descrizione, Dirty Difficult Dangerous aggiunge un altro elemento di interesse: la guerra tra poveri. In effetti, la storia di Mehdia è legata a quella di un’altra ragazza, proveniente dal sud est asiatico e collocata nella stessa famiglia in cui lavora Mehdia. Questa nuova presenza scatena una competizione insensata e grottesca presentata allo spettatore in tutta la sua assurdità. Le nuove e le più antiche migrazioni si confrontano in un gioco sadico, nel quale le nazionalità delle donne di servizio sono considerate come marche di elettrodomestici.
Charaf si dimostra capace di descrivere anche la migrazione dei siriani in Libano toccandone le caratteristiche principali. Tale fenomeno è catturato nella sua dimensione urbana, diffusa e invisibile anche se vicina, così come nella sua dimensione coagulata nella realtà dei campi, dove Mehdia è Ahmed vivranno per un periodo della loro fuga d’amore.
Nella prima parte del film, lo spettatore può osservare l’emarginazione che è sottesa alla condizione del rifugiato fuori dai campi. Le condizioni di vita imposte ai siriani che vivono nell’ambiente urbano sembrano volerli mantenere in una invisibilità totale dallo spazio pubblico, che non può concepirne l’esistenza al di fuori del dispositivo del campo, come se la categoria di rifugiato fosse valida solo ed esclusivamente all’interno di questo. È proprio questa correlazione “rifugiato-campo” l’idea alla base dell’elargizione della maggior parte delle politiche pubbliche in Medio Oriente, così come nel resto del mondo.
Un film libanese, mediterraneo o universale?
Nonostante la potenza e lo spazio consacrato al contesto, la vera forza di questo film è la sua capacità a restare attaccato alla storia d’amore piuttosto che alla descrizione della realtà sociale. La centralità del sentimento che lega Mehdia e Ahmad garantisce al film un tono leggero e mai superficiale, capace di comunicare i problemi del contesto senza che la pesantezza del messaggio lo renda respingente.
In più, la particolarità del quadro permette allo spettatore di estrapolare i temi presentati a partire dal contesto per interiorizzarli nella loro dimensione universale. Nonostante il film racconti fenomeni libanesi, l’universalità delle ineguaglianze subite dai protagonisti appare chiaramente. Il fatto che il film sia stato girato in gran parte in Corsica ha una forte simbologia: il Mediterraneo è toccato da queste dinamiche sociali, che, se osservate attraverso la giusta lente, sono simili e necessitano dello stesso lavoro di decostruzione e di cambiamento. È così che il paesaggio corso può sembrare il Libano così come le ineguaglianze della società libanese possono sembrare appartenenti a una qualunque altra società mediterranea.
Elena Sacchi