Una navicella spaziale verso l’ignoto: Hit the road di Panah Panahi
«Quale credi sia il film migliore del mondo?» chiede Pantea Panahiha, l’attrice che interpreta la madre, al figlio maggiore Farid (Amin Simiar). Lui risponde, dopo averci pensato un po’ su: «2001: Odissea nello spazio» perché «ti porta nella profondità della galassia».
Questo è solo uno dei tanti accenni ed elogi che fa Hit the road alla storia del cinema: da Kubrick a Spiderman di Christopher Nolan, di cui non mancano i riferimenti durante le conversazioni, si passa ai paesaggi di un Iran ben noto sul grande schermo; dalle corse in moto o a piedi su e giù per le colline, su quei sentieri che sembrano gli stessi della trilogia ambientata nel Koker di Kiarostami fino alla scena in cui una lattina sembra prendere il posto della bomboletta d’alluminio che rotolava in Close Up, nel 1990.
Il fulcro centrale, però, lo spazio per eccellenza del film esordio di Panah Panahi è l’abitacolo della macchina, omaggio al padre (Jafar Panahi): l’auto che qua si fa casa di tragedia e commedia, videoclip sulle note del pop persiano e teatro di primi piani intensi in cui una madre straziata dal dolore piange. Gli spazi, quindi, tengono il ritmo del film e, con inquadrature fisse, lasciano che i dialoghi (tanti in fuori campo) fluiscano in un continuo scambio di battute: in tutto ciò è la distanza della telecamera a determinare la cadenza e il tono da dare alla pellicola, oltre che a decidere quanto lo spettatore debba avvicinarsi. nIn alcune scene le azioni vengono riprese in campi lunghi in cui è impossibile immedesimarsi e in cui persino le voci sono sovrastate dal fruscio degli alberi, mentre nuvole nere si addensano in cielo. Bisogna decidere, quindi, se guardare le nuvole, ascoltare le parole confuse dei personaggi o seguire la corsa affannata di una donna che non sa se rivedrà il figlio.
Senz’altro questi sono aspetti di un cinema iraniano che abbiamo già imparato a conoscere: allora, qual è la novità? Panah Panahi apporta con Hit the road un’ambientazione che si fa magica. Lo si vede nella sequenza in cui padre e figlio minore (Rayan Sarlak) guardando il cielo stellato si ritrovano a fluttuare (in omaggio a Kubrick) nello spazio o quella in cui, come fosse un videoclip musicale diretto da un regista presente sul set ma che non vediamo, Rayan recita le parole di una canzone persiana fine anni ’70, Shabzadeh di Ebi, in uno spazio – tempo sempre più surreale che li porterà a condurre quella navicella spaziale (l’auto) verso l’infinito: il ritorno, la loro unica meta, un invincibile destino. A questo lato onirico si rifanno anche molte conversazioni tra padre e figlio che, giocando con il mondo della finzione del cinema e dei supereroi, apportano alla sceneggiatura un taglio misterioso, soprattutto nella prima parte in cui non si capisce chiaramente il ruolo dei personaggi o quello che potrebbe succedere da lì a poco.
Nonostante il regista adotti un nuovo modo di rappresentazione della realtà rispetto al padre, e grazie all’elemento della menzogna che non va ad addentrarsi completamente nelle dinamiche della società iraniana, i temi centrali portano lo stesso cognome: un figlio in fuga vuole uscire dal paese illegalmente; i genitori lo accompagnano in questo viaggio che però vogliono rendere indolore per il fratello minore, al quale fanno credere Farid si debba sposare e per questo motivo sia costretto a partire. La farsa viene quindi condita da elementi surreali della fantasia infantile che permette di evadere dalla cruda realtà: il contesto sociopolitico iraniano, che qui resta fuori campo. Questo e tanti altri aspetti vengono nascosti al bambino, come il cane che è in fin di vita per una malattia terminale.
Se la prima parte del film si muove sulle note di Schubert che sembra inevitabilmente rallentarne i primi frammenti nonostante siano i meno drammatici, la seconda parte, nel vivo del dolore e con primi piani molto più frequenti e lunghi, esplode in note pop alla Xavier Dolan, dove la sofferenza della madre e l’irrequietezza del piccolo Rayan sono protagonisti, dimenticandosi, forse, del taciturno e calmo Farid appena partito.
Erika Nizzoli