The man who sold his skin – L’arte tra libertà e prigionia

Kaouther Ben Hania, dopo aver attirato l’attenzione della critica internazionale col suo film precedente La bella e la Bestia, ottiene la consacrazione internazionale col superbo lungometraggio The man who sold his skin, un film che la porterà ad essere candidata agli Academy Awards del 2021.

Sam è un giovane siriano innamorato di Abeer, che pur corrispondendo il suo amore è promessa a un ricco diplomatico di stanza a Bruxelles. A causa di un malinteso Sam viene incarcerato e, costretto a scappare, abbandona la Siria andando a vivere in Libano dove sbarca il lunario e viene continuamente biasimato per essere siriano. Sam ha un solo obiettivo: riuscire a raggiungere Bruxelles per incontrare la ragazza che ama, ormai sposata col ricco diplomatico. A Beirut incontra un importante artista contemporaneo e in cambio della vendita della sua pelle, cosa che lo fa divenire un Visto Schengen e un opera d’arte vivente, Sam riesce a raggiungere l’Europa ma è costretto a scendere a patti con la realtà. Una realtà fatta di sfruttamento, orientalismo consapevole e inconsapevole (il più pericoloso) e di prigionia in un mondo dorato.

With my latest work I’m exploring a new realm (…) we live in a very dark era where if you are Syrian, Afghan, Palestinian and so on, you are persona non grata. The walls rises. And I’ve just made Sam a commodity, a canvas, so now he can travel around the world. Cause in the times we are living, the circulation of commodities is much freer than the circulation of human beings.

La storia del film è abbastanza semplice e narra di una giovane coppia di innamorati che deve combattere contro mille avversità per poter realizzare il proprio sogno d’amore: tra una guerra civile, un marito a cui strappare la principessa in ostaggio e un racconto di viaggio lineare ma non privo di ostacoli, la struttura ricalca quella di un classico poema cavalleresco. È però il contorno alla struttura di questo film, la sua pelle, che lo rende un vero gioiello: pur raccontando una complessa storia d’amore, la regista e sceneggiatrice Ben Hania nel secondo atto della pellicola costringe lo spettatore a un’intensa riflessione sul ruolo dell’arte all’interno della società.

La provocazione dell’artista Jeffrey Godefroi emancipa Sam e gli permette di andare in Europa ma lo rende schiavo di se stesso, del suo essere opera d’arte vivente e dell’essere esposto davanti a ricchi facoltosi che vedono l’arte prima dell’uomo. In questo film il fulcro sta non tanto in quello che può essere definito il suo motore, ovvero nella trama, ma nelle reazioni che provoca la scelta del protagonista, nella sua dimensione fenotipica, nella sua carrozzeria.

Il film indaga il ruolo dell’arte nella società contemporanea e come il borghese cinismo snob releghi e renda semplici manifestazioni artistiche delle problematiche e delle controversie sociali. L’arte secondo la sceneggiatrice e regista ti libera e ti schiavizza allo stesso tempo e l’opera di denuncia diventa essa stessa un prodotto di quell’orientalismo contro cui ci si vuole scagliare.

Con una fotografia superba e una colonna sonora mai invadente che sottolinea i passaggi chiave di un dramma lineare perfettamente costruito, la regista si impone sulla scena del cinema arabo con un film arrogante e provocatorio che finisce per prendersi gioco dello spettatore stesso. Negli ultimi minuti del lungometraggio l’artista e proprietario intellettuale di Sam si pone una domanda, rispondendosi:

Do you know what’s worse that being part of the system? It’s being ignored by it.

Kaouther Ben Hania con questo film è diventata parte del sistema ma il suo film non è stato e non verrà ignorato e di questa regista sentiremo ancora parlare.

Luigi Toninelli

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