Il sapore della censura: una storia di cinema iraniano

La storia della censura iraniana è una delle più ricorrenti e più famose in ambito cinematografico, nonostante continui ad avere un volto mutevole e un carattere volubile il suo risultato è paragonabile ad un’assenza assordante ma densa: quella dei registi, vincitori invisibili, a cui negli ultimi decenni è stato vietato di lasciare il paese per partecipare ai festival internazionali e tenere in mano i loro meritati premi. Sono quelli che per anni sono finiti agli arresti domiciliari o a cui è stato proibito di girare film: nonostante i divieti, però, sono riusciti a dar vita a capolavori della storia del cinema d’autore. Quello che non ha potuto fare la presenza ostinata e insidiosa della censura è fermare il merito, la voce, il pubblico e la critica.

Impossibile dimenticare gli escamotage di Jafar Panahi che per continuare a raccontare le proprie storie percorre l’Iran in automobile avvalendosi di soli dialoghi che si svolgono prevalentemente all’interno dell’abitacolo e che, attraverso il metacinema, regalano spaccati di vita vera: uno spiraglio di speranza per un’intera generazione che grazie alla macchina da presa del regista può dar sfogo a una protesta silenziosa in grado di riunire i desideri, le abitudini e la voglia di libertà di un intero paese.

Più recentemente, invece (nel 2020), ha fatto la sua “non comparsa” sul palco a Berlino Mohammad Rasoulof, altro ‘dissidente’ che ha ricevuto l’Orso d’oro per per There is No Evil (Il male non esiste). In quell’occasione la figlia, nonché parte del cast del film, mossa dalla volontà di voler condividere il momento di gioia con il padre lo fa partecipe contattandolo in videochiamata. È così che la censura alimenta verso se stessa un certo audience: i magazine di cinema online iniziano a parlarne, i fan si ribellano e criticano le norme assurde vigenti ma non appena il dibattito si affievolisce lei torna alla carica, com’è successo di nuovo con lo stesso Panahi qualche settimana fa: arrestato per “propaganda contro il sistema della Repubblica islamica iraniana”.

Al contrario di quello che si potrebbe pensare, però, la censura in Iran non nasce con la Repubblica Islamica ma traccia la sua storia parallelamente a quella della settima arte, cambiando forma e aspetto; si può dividere principalmente in due momenti: pre e post rivoluzione. Credere, quindi, che il cinema iraniano non subisse una censura prima del 1979 è errato poiché già molti anni prima dell’arrivo di Khomeini erano nate le prime regolamentazioni. Basti pensare che addirittura negli anni ‘20 del Novecento i gruppi religiosi facevano una certa pressione sui titoli d’importazione poiché sapevano essere intrisi di una morale occidentale che avrebbe influenzato il pubblico iraniano.

Per parlare, però, dell’inizio della censura istituzionalizzata bisogna menzionare l’uscita delle prime pellicole in cui si utilizzano dialoghi e parlato: molto importante in questo contesto è il regista Ismail Koushan (The storm of life, 1948) che con il patrocinio e l’appoggio dello Shah Mohammad Reza Pahlavi nel 1950, cerca di far decollare la produzione iraniana. Nascono così, proprio in quegli anni, il film Farsi e il film Abgushti: la prima corrente, con un fine molto prevedibile e di scarsa qualità, voleva mettere in contrapposizione il bene e il male talvolta plagiando goffamente intere pellicole occidentali e affidandosi ad un vero e proprio star system; il genere abgusthi, invece, viene inaugurato da un film in particolare intitolato Il tesoro di Gharun. In una scena si vedono i personaggi intenti a consumare un piatto di Abgusht (ricetta tipica persiana a base di carne, più conosciuta come Dizi) che ha dato il nome a questo genere. I temi del film abgushti erano decadenti, la qualità lasciava a desiderare così come la sceneggiatura. Sono, però, proprio questi due filoni e numerosi plagi a permettere un incremento delle produzioni che fa nascere le prime regolamentazioni e una Commissione dello spettacolo con un ruolo ben chiaro: quello di esercitare una vera e propria censura preventiva sui film, un po’ come faceva il codice Hays hollywoodiano che negli anni ‘30 del Novecento conteneva una rigorosissima serie di proibizioni col fine di moralizzare il cinema statunitense.

La Commissione dello spettacolo iraniano poteva ostacolare l’uscita di un film basandosi su diversi divieti come quello di offendere la monarchia, l’istigazione alla rivolta o mostrare relazioni illecite sul grande schermo.

Nel 1979 con la Rivoluzione islamica molti cinema vengono distrutti durante le rivolte: nel ‘78 estremisti sostenitori di correnti conservatrici provocano l’incendio del Cinema Rex ad Abadan, una tragedia indelebile nella storia del cinema e della libertà in cui morirono centinaia di persone.

Khomeini, ottenuto il potere, comprende subito il mezzo potente che può essere la macchina da presa: se ne serve non solo a scopo propagandistico ma anche per rinsaldare l’unità del popolo che dopo la rivoluzione si trovava profondamente diviso. I nuovi governatori modificano le normative vigenti inserendo divieti ancora più severi: censurano le vecchie locandine coprendo le parti del corpo femminile ritenute provocanti, mentre i film vengono bloccati all’uscita sulla base dei vecchi regolamenti. Nasce quindi il Ministero della cultura della guida islamica e nel 1982 viene istituito il Fajr: un festival di cinema nazionale a cui possono accedere solo i registi che rispettano le politiche della censura. Il primo regolamento introdotto da Khomeini è quello di vietare le pellicole che possono indebolire il monoteismo e le norme islamiche. Intanto, però, inizia la guerra Iran – Iraq e ad andare in scena negli anni ‘80 sono solo ed esclusivamente patriottismo e revanscismo che spazzano via quei generi che stavano aprendo una strada alla produzione nazionale.

Come ha fatto, quindi, il cinema iraniano a distinguersi in tutto il mondo? Come hanno fatto le opere di registi come Jafar Panahi, Asghar Farhadi e Mohammad Rasoulof a uscire dai confini persiani e vincere Palme di Cannes e Orsi d’oro in Europa? Come ricordiamo nel nostro podcast dedicato al cinema iraniano è importante ricordarsi che questo nasce proprio nella censura stessa e non con il mero scopo di aggirarla: uno dei nomi più importanti è quello di Mohsen Makhmalbaf che dirige opere di qualità regalando ritratti di resilienza umana senza essere ‘fuori legge’ o, ancora, il maestro Abbas Kiarostami, uno dei registi più influenti degli anni Novanta, che insieme ad altri trova la sua fortuna nell’istituto Al – Kanun, nato con lo scopo di educare bambini e adolescenti. È proprio questo ente che permetterà al regista Amir Naderi di scrivere capolavori come The runner (Il corridore): una perla della storia del cinema a livello mondiale. E così si inizia a scappare dalla censura: attraverso la corsa di un bambino verso una salvezza poco tangibile in cui i temi della povertà e della carenza dello Stato sono palesi ma che gli occhi ingenui dei censori non riescono a scovare.

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A fine anni ‘90 in particolare si assiste ad un movimento riformista indetto da Mohammad Katami (presidente dell’Iran dal 1997 al 2005) che si espone dalla parte dei registi togliendo l’obbligo di dover presentare i film al Fajr per essere idonei all’uscita. Con Katami il cinema iraniano è nel suo momento di massima espansione: Kiarostami con Il sapore della ciliegia vince la Palma d’oro a Cannes nel 1997. Pochi anni prima un film che avesse fatto una profonda riflessione sul suicidio non sarebbe mai uscito sotto l’occhio della Repubblica Islamica. L’epoca dei premi ritirati in presenza ai festival internazionali dura, però, pochi anni: Katami si dimette al suo secondo mandato e il presidente successivo, Ahmadinejad, arriva a condanne per i registi senza precedenti. Nel 2010 a Jafar Panahi viene proibito di girare film per vent’anni in seguito alla sua adesione all’Onda verde (Green Movement, 2009), un movimento di protesta contro l’oscurantismo del mandato di Ahmadinejad che aveva fatto ricadere il paese in un regime sempre più illiberale e repressivo. Escono in quegli anni Offside, This is not a film e Taxi Teheran: opere che riflettono sulla stessa condizione del regista a cui è stato persino vietato di lasciare il paese. Sono pellicole coraggiose che parlano della situazione socio – politica del paese senza smettere di riflettere sullo stesso mezzo cinematografico. È normale chiedersi come questi film, proibitissimi in Iran, siano riusciti non solo ad uscire in Europa ma addirittura a vincere dei premi.
Sarà stata l’astuzia di Panahi o il potere del cinema che trova sempre la deviazione giusta: si dice che This is not a film sia arrivato al Festival di Cannes nel 2013 in una chiavetta USB, nascosta in una torta.

Se l’indole di Jafar Panahi è sempre stata quella di parlare forte e chiaro nelle sue storie metacinematografiche senza nemmeno tentare di aggirare la censura, se non quando si trattava di far arrivare il film a destinazione; diverso è stato il lavoro di Asghar Farhadi che con lo scudo del cinema del dubbio mette in scena storie controverse dalla scrittura complessa sulle quali la censura non può agire poiché non si arriva mai a cogliere il fatto.
Non è possibile oggi parlare di cinema iraniano senza che insieme ad esso affiori la censura : è una costante che dal 2010, come se Panahi ne fosse l’iniziatore, repelle e attrae la critica internazionale e questo è un dato di fatto. Tanti correnti artistiche sono nate sotto il controllo di rigide censure ma questo non ha impedito loro di raggiungere il pubblico.

La storia italiana del cinema non è da meno: ad introdurre la censura nel Bel Paese furono le leggi fasciste del 1920 e nel Dopoguerra la Democrazia Cristiana che con il governo De Gasperi, di cui Giulio Andreotti era sottosegretario dello spettacolo, aveva redatto un codice per classificare le pellicole idonee o meno all’uscita nelle sale. Come hanno fatto quindi il neorealismo italiano, prima, e le pellicole di Pasolini, dopo, a definirsi come opere fondamentali per la settima arte? Un po’ come ha fatto il cinema iraniano: esponendosi e facendosi testimone di un tempo vissuto e condiviso, parlando e guardando ad un’intera popolazione partecipe che era ed è il pubblico stesso.

Erika Nizzoli

Fonti:

  • Seminario online sul cinema iraniano di Claudio Zito (www.cinemairanianoblog.blogspot.com), promosso da Il progetto Negah (www.negah.it), 30 e 31 ottobre 2021.
  • Il ruolo della censura nell’Iran pre e post rivoluzionario, Elena Zamborlini, Università Ca’ Foscari Venezia, www.unive.it.

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