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Dunya Mikhail: la poesia dell’esilio

“Se qualcuno lo trova
me lo restituisca.
È il mio paese.
Andavo di fretta
ieri quando l’ho perso”

Andavo di fretta, dunya mikhail

L’estratto qui riportato è parte del componimento ‘Andavo di fretta‘, contenuto nella raccolta La guerra lavora duro della poetessa Dunya Mikhail. Caratterizzata da un tono quasi infantile, la poesia affronta con apparente leggerezza una delle tante sfaccettatura dell’esilio: il rischio di perdere le proprie radici e la propria identità.

La poetessa costruisce una sorta di catalogo, un elenco di immagini evocate mentre cerca di ricordare dove può aver perso il suo Paese: l’Iraq potrebbe essere finito “tra la refurtiva dentro una giara di Alì Babà” oppure potrebbe essere “sparpagliato / come i sogni di chi viene / in America”. Ha perso il suo Paese perché andava di fretta e l’allontanarsi fisicamente sembra corrispondere a una perdita di questo su tutti i fronti. Nonostante il tono sia simile a quello di un bambino che abbia perso il suo gioco preferito, all’interno del componimento si percepisce una forte consapevolezza: se anche mai ritrovasse questo Paese, esso sarebbe ormai un oggetto, qualcosa da appoggiare su un mobile, pronto a prendere polvere. La poesia si conclude con le parole sopra trascritte, una sorta di formula che si potrebbe ritrovare su un qualche cartello affisso per la città.

Chi è il poeta in esilio?

Dunya Mikhail è una poetessa di origine irachena nata nel 1965 a Baghdad. Nel corso della sua carriera da giornalista, si è esposta più volte contro il regime di Saddam Hussein nonostante il forte clima di censura. Sarà proprio l’aggravarsi della sua posizione nei confronti del regime la causa del suo esilio negli Stati Uniti, avvenuto nel 1995 in seguito a una soffiata di un amico che la convincerà a partire. Qui continuerà la sua carriera di poetessa, iniziata in Iraq durante la sua formazione nella facoltà di letteratura inglese.

All’interno delle sue poesie sono identificabili alcuni filoni principali che custodiscono al loro interno temi caratteristici della narrazione in esilio e di un esilio: il ricordo e la rievocazione, la ricostruzione di un’identità, la presa di posizione per dare voce a chi è rimasto.

Dunya Mikhail

Ma Mikhail non è solo una poetessa, all’interno dei suoi scritti si trovano anche esperienze che, pur mantenendo una certa cadenza poetica, si devono ascrivere all’ambito della prosa. Si tratta delle riflessioni autobiografiche contenute in Diary of a Wave Outside the Sea e del romanzo documentale Le regine rubate del Sinjar.

I suoi contenuti, la scelta dell’arabo come primo mezzo per esprimere la sua poesia e uno sguardo sempre rivolto alla terra natale fanno di lei un interessante esempio di poesia araba della diaspora.

Tra esilio e censura

Il viaggio alla volta degli Stati Uniti che la poetessa è stata costretta a intraprendere nel 1995 era rimasto in sospeso fin dalla sua adolescenza. Infatti, data la sua bravura in matematica, il padre l’aveva spinta a cercare di continuare gli studi lì. Ma, al momento di richiedere i documenti di viaggio, la guerra tra Iran e Iraq era scoppiata e una nuova legge era entrata in vigore: le donne non potevano viaggiare da sole e svolgere una serie di altre attività con una guerra in corso. Con l’idea che la guerra non sarebbe durata per sempre, Mikhail aveva deciso di iniziare a studiare inglese all’Università di Baghdad, per essere pronta, a guerra finita, a continuare gli studi negli Stati Uniti. Inizia così la sua formazione universitaria a Baghdad, ed è così che intraprende anche la carriera da giornalista, portando avanti parallelamente il suo interesse per la poesia.

All’interno della sua produzione, la censura ha giocato un ruolo determinante in campo stilistico: utilizzare un linguaggio simbolico e allegorico diventava una necessità per i poeti che in Iraq volessero esprimere le loro idee.
Una volta giunta negli Stati Uniti una parte di lei è rimasta ancorata all’Iraq e a quello che lì ha lasciato, in una condizione di eterna transizione che emerge con forza dai suoi lavori. Per esempio, all’interno della poesia dal titolo “Inanna”, la dissociazione tra l’Iraq e gli Stati Uniti si rende esplicita nei versi:

I figli dei vicini di un tempo
li vedo in televisione
corrono via
dalle bombe
dalle incursioni
e da Abu’t-Tùbar
i figli dei nuovi vicini
li vedo per strada
corrono
per fare moto la mattina

Da La guerra lavora duro, traduzione di Elena Chiti

L’evidente distanza tra la vita di un bambino in Iraq e quella di un bambino negli Stati Uniti viene rappresentata in appena dieci versi, con un tono asciutto che rende l’immagine evocata ancora più indigesta. Si tratta di un parallelismo costruito sul movimento: in entrambi i casi i bambini corrono, si muovono; ma questa immagine dinamica è drammaticamente diversa. Non si tratta solo della denuncia di una delle tante conseguenze della guerra, ma anche di una riflessione su quale sia il posto che la poetessa, nella sua condizione di esilio, dovrebbe occupare.

L’Iraq e la rievocazione

Se l’America rappresenta un interlocutore, un altro a cui rivolgersi, l’Iraq assume diverse forme all’interno della poetica di Mikhail. La necessità di cogliere il maggior numero di sfaccettature del Paese perduto emerge con forza soprattutto nella rievocazione del passato millenario su cui l’Iraq contemporaneo appoggia le sue fondamenta. Un Paese che quindi viene rimpianto e celebrato, criticato e rifuggito, ma sempre e comunque presente.

Mikhail ricerca un collegamento atavico con la sua terra che collochi le sue radici nella culla dell’umanità: la Mesopotamia sumera, che ha iniziato a chiamarsi Iraq solo in tempi molto più recenti. Tracce di questa antica storia occupano molto spazio anche all’interno dell’ultima raccolta poetica di Mikhail, The Iraqi Nights (2013). Il recupero della tradizione e del suo legame indissolubile con l’Iraq sembra voler riaffermare e legittimare l’identità irachena, percepita come in pericolo dalla generazione di poeti che hanno dovuto raccogliere i cocci di un Paese distrutto dal regime prima e dall’invasione statunitense poi.
Nonostante il lungo periodo passato in esilio, la propria terra d’origine non ha dunque mai cessato di esercitare una forte influenza sulla creatività di Mikhail. Questa caratteristica permette di ascrivere a pieno titolo la sua poesia come una poesia di esilio, nella quale l’appartenenza a un’entità geografica gioca un ruolo fondamentale.

Sopravvivenza della cultura e della politica

Un’altra delle dimensioni dell’esilio che emerge dalle opere di Dunya Mikhail è racchiusa nella poesia “Foglio semibruciato in via Mutanabbi”, tratta dalla raccolta The Iraqi Nights. All’interno di questa poesia si fa spazio una delle maggiori preoccupazioni della generazione di letterati iracheni che ha assistito alle catastrofi abbattutesi sul Paese: la conoscenza, la cultura dell’Iraq, riusciranno a sopravvivere anche all’occupazione statunitense?

Il titolo della poesia fa riferimento all’esplosione di una bomba in via Mutanabbi, a Baghdad, nel marzo 2007, una delle tante conseguenze delle tensioni causate nel Paese dall’invasione statunitense. L‘esplosione è stata oggetto di diverse riflessioni in ragione della simbologia legata a questo luogo: via Mutanabbi era infatti sede di caffè, librerie e luoghi di aggregazione, che la rendevano un luogo iconico dello scambio, del sapere e della cultura a Baghdad.

Il fatto di vivere in un Paese straniero non ha mai allontanato Mikhail dal suo Paese d’origine, di cui non solo si fa narratrice, ma verso cui continua ad assumere posizioni che si potrebbero definire politiche. Come affermato dalla stessa autrice, ciò che è politico non può prescindere dalla sua poesia, poiché la politica fa parte della quotidianità della vita stessa.

La questione della lingua

All’interno della letteratura dell’esilio, anche le scelte linguistiche hanno un valore fondamentale. Nel suo caso, Mikahil ha più volte affermato di aver letto e in alcuni casi addirittura collaborato alla traduzione inglese delle sue poesie. La sua padronanza della lingua inglese, così come l’appartenenza a una delle minoranze cristiane in Iraq parlante il neo-aramaico, rende la sua scelta di scrivere invece in arabo ancora più significativa.

Non si tratta solo di una scelta identitaria, né tantomeno di una precisa selezione del destinatario, ma piuttosto della consapevolezza che la propria lingua madre rimane l’unica in grado di esprimere al meglio pensieri ed emozioni.
Nonostante questa scelta stilistica, Mikhail si trova comunque a fare i conti con una spaccatura del poeta in esilio: da una parte l’inglese, con il quale Mikhail deve riuscire a esprimersi nel momento in cui le si chiedano spiegazioni sui suoi componimenti, e dall’altra l’arabo, lingua che riporta all’Iraq e che lei utilizza per esprimere pensieri, immagini, sensazioni.

La guerra lavora duro

Basta scorrere le pagine dell’antologia La guerra lavora duro, tradotta in italiano da Elena Chiti, per ritrovare tutti gli elementi fino ad ora evidenziati. La guerra lavora duro è allo stesso tempo il titolo della raccolta che di una poesia, che si costituisce come centro della raccolta stessa. Si tratta della narrazione del difficile lavoro che la guerra compie nella realizzazione dei suoi orrori che si conclude con la paradossale considerazione sul fatto che la guerra sia l’unica perdente, in quanto “lavora duro come nessuno/e mai che ci sia per lei una parola di lode”. La poesia si struttura attraverso una concatenazione di verbi e azioni che sono compiuti dalla guerra, che ne esemplificano la laboriosità. Dalle azioni più visibili e drammatiche, raccontate con uno stile così asciutto da risultare quasi ironiche, Mikhail passa a presentare anche tutte quelle conseguenze più invisibili che la guerra produce con il suo lavoro. La guerra diviene qualcosa che la stessa autrice del componimento dovrebbe ringraziare, perché fornisce “materia ai poeti”, come anche “raccoglie viveri per le mosche / aggiunge pagine al libro di storia”.

La guerra lavora duro

La prospettiva: esilio da

Visto lo sguardo che rimane profondamente legato al Paese natìo , si può affermare che la traiettoria di diaspora di Mikahil abbia fornito alla sua poesia i connotati di un esilio da. Si tratta infatti di una letteratura che rielabora la condizione di allontanamento dal proprio paese rivolgendosi sempre verso la realtà che si è persa. Questo rivolgimento ha una forte influenza sui temi selezionati dall’autrice e sui colori con i quali questi temi vengono dipinti: nostalgia, rimpianto, senso di colpa, rievocazione, presa di parola per chi è rimasto.

Seppur emergano alcune delle caratteristiche del luogo in cui l’esilio è sperimentato, la poetica di Mikhail tratta il Paese dove vive in esilio come interlocutore e metro di paragone per ciò che era prima, più che nuovo luogo in cui collocare una poetica maggiormente caratterizzata dall’ibridità, di temi come di linguaggio.
Lo spostamento fisico di un intellettuale, che sia scelto o imposto, rappresenta un vissuto che si ripercuote sulla scelta di temi e sulla prospettiva con la quale questo scrive in un momento successivo a tale esperienza. Anche se non direttamente affrontato, l’esilio si intravede in queste produzioni come un segnavia sulle traiettorie di diaspora degli autori che ne sono toccati. L’esilio si rivela oggi una parte integrante della produzione araba contemporanea, in prosa, come in poesia. Comprenderne le tematiche e analizzare i diversi approcci con i quali gli autori si relazionano a questa esperienza è fondamentale per apprezzare il quadro generale della produzione letteraria araba, che non sempre può essere localizzata nella regione MENA, ma che contribuisce in egual misura alla sua vivacità culturale.

La guerra è inarrestabile, giorno e notte.
Ispira i lunghi discorsi dei tiranni
conferisce medaglie ai generali
e argomenti ai poeti.

Contribuisce all’industria di arti artificiali
fornisce cibo alle mosche
aggiunge pagine ai libri di storia
mette sullo stesso piano vittima e assassino.
Insegna agli innamorati come si scrivono le lettere
insegna alle ragazze ad aspettare
riempie i giornali di storie e fotografie
fa rullare ogni anno i tamburi per festeggiare
costruisce nuove case per gli orfani
tiene occupati i costruttori di bare
dà pacche sulle spalle ai becchini
sorride davanti al capo.

La guerra lavora molto
non ha simili
ma nessuno la loda.

(da Non ho peccato abbastanza, antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di Valentina Colombo)

Elena Sacchi


Fonti

  • Altoma, Salih J. 2003. “Iraqi Poets in Western Exile.” World Literature Today 77.3-4: 37–42.
  • Mikhail, Dunya. 2011. La guerra lavora duro. Traduzione e cura di Elena Chiti. Genova: San Marco dei Giustiniani.
  • Said, Edward W. 2008. “Riflessioni sull’esilio.” In Id., Nel segno dell’esilio: 216-231. Milano: Feltrinelli.
  • Salhi, Smai Zahia. 2006. “Introduction Defining the Arab Diaspora”. In The Arab Diaspora, edited by Zahia Smail Salhi and Ian R. Netton: 1-10. London & New York: Routledge.
  • Tuffaha, Lena Khalaf. 2019 “Dunya Mikhail: In Her Feminine Sign”. World Literature Today: 99.

Sitografia

  • Chiti, Elena. 2015. “Per la poesia ho lasciato il mio paese, per il mio paese ricorro alla poesia: intervista a Dunya Mikhail.” Argonline. 7, Dicembre.
  • https://www.argonline.it/per-la-poesia-ho-lasciato-il-mio-paese-per-il-mio-paese-ricorro-alla-poesia-intervista-a-dunya-mikhail-di-elena-chiti/ [ultimo accesso 27/06/2021]

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