Paradise Now: il limbo tra la morte e la vita

L’opera che portò all’attenzione della critica internazionale Hany Abu-Assad (qui la recensione di The Idol), regista, sceneggiatore e produttore cinematografico palestinese, è un fascio di nervi: quello della società, quello di due popoli in una terra considerata troppo piccola per poter ospitare entrambi, quello dei suoi protagonisti, quello di un conflitto intrattabile.

Fonte immagine: fromthebalcony.com

Due fratelli di Nablus, costretti a vivere con l’onta del collaborazionismo del padre con Israele sulle spalle, decidono di riabilitare il nome di famiglia compiendo un attacco suicida a Tel Aviv. La storia segue le difficoltà, i ripensamenti e i drammi che ruotano attorno alla scelta dei due fratelli. La linearità dello sceneggiato prepara lo spettatore al climax finale conducendolo mano nella mano in un vortice di disperazione.

Il retaggio familiare è una spada di Damocle in questo lungometraggio: rappresenta lo stigma attraverso cui le colpe dei padri non possono che ricadere sui figli; è un fattore di manipolazione e sfruttamento da parte dei gruppi di resistenza armata, ed è un pregiudizio nei confronti di chi vuole affrancarsi dalla visione militaristica del conflitto. Questo tema, assieme alla permeazione del conflitto all’interno della società, che come un virus ha infettato una comunità che non conosce altro che dolore e morte, è il cardine di un dramma sicuramente semplice ma ben scritto e ben girato.

La guerra, seppur asimmetrica, è un virus capace di adattarsi e riaffermarsi generazione dopo generazione e da cui è impossibile affrancarsi. In un conflitto la vita è sempre possibile, e la capacità di adattamento dell’essere umano è talvolta sorprendente, il film però va in un’altra direzione: gli occhi e lo sguardo assente di Said, il pallore del ragazzo e le frasi più volte ripetute da parte dei due fratelli ribaltano il concetto di vita e morte. L’esaltazione della morte e il percepirla come una sorta di salvezza sono gli elementi più interessanti del cinismo messo in scena dal regista palestinese.

Fonte immagine: Slant Magazine

Meglio avere il paradiso nella testa che vivere nell’inferno, e poi, siamo già morti!

La ricerca della morte va di pari passo con la ricerca e la definizione di sé, con la ricerca di una soluzione a una situazione priva di apparenti vie di fuga, con la ricerca dell’altro in cui si riflette anche il nostro essere.

Quando Khaled, fratello di Said e iniziale compagno nella missione suicida, anche se meno convinto del fratello, e Suha, una donna molto vicina a Said, vanno alla ricerca di quest’ultimo non lo fanno solo per salvarlo da sé stesso: privare Said della propria vita equivale a privare sé stessi di un futuro e ancor più, privare il popolo palestinese di una possibile alternativa rispetto alla lotta armata. Hany Abu-Assad però non crede nella speranza e nella salvezza che i suoi personaggi tentano di guadagnarsi e nel finale, con uno schiaffo retorico, allotana ogni velleità di redenzione.

Luigi Toninelli

Articoli simili