Simone Bitton: regista del Mediterraneo
di Giulia Rizzotti
Durante il Festival del Cinema Mediterraneo (CINEMED) di Montpellier, abbiamo avuto l’occasione di conoscere il lavoro della regista Simone Bitton, documentarista eclettica, nominata in numerosi festival di cinema internazionali e vincitrice del Gran Premio della Competizione Internazionale di Marsiglia, nel 2004. Nata in Marocco da una famiglia ebrea, a undici anni si trasferisce in Israele per poi spostarsi temporaneamente a Parigi per studiare cinema all’IDHEC. Sarà l’esperienza come soldatessa durante la guerra dello Yom Kippur nel 1973 a renderla indelebilmente pacifista e a farle decidere di lasciare il Paese per la Francia.
Nonostante durante uno degli incontri organizzati durante il festival, Bitton si sia definita “pudica” nella sua produzione (nel senso che non condivide informazioni personali nei suoi film) le tematiche e i luoghi che esplora raccontano tanto sulla pluralità di storie e di entità che ha attraversato, tra il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Europa.
Tra la quindicina di film e documentari realizzati c’è una grande varietà di stili e tematiche, ma la questione israelo-palestinese resta sempre centrale e viene esplorata da angolazioni e punti i vista differenti: da un racconto in due episodi sulla nakba, costruito a partire da una profonda esplorazione di archivi storici, al ritratto del poeta dell’esilio palestinese per eccellenza, Mahmoud Darwish: la terra, come la lingua (1997), fino alle crude e tragiche scene riprese in L’attentato (1998) e in Rachel (2009). Quest’ultimo, presentato ai festival di Berlino e di Réel nel 2009, è un’inchiesta cinematografica sulla vicenda della 23enne attivista statunitense, Rachel Corrie, schiacciata da un bulldozer israeliano nel 2003. Attraverso le parole di Rachel, raccolte nelle e-mail che ogni giorno inviava ai suoi cari da Gaza, nei video e nelle fotografie amatoriali, viene rivelato il punto di vista di una giovane studentessa americana. Giovane lei come sono giovani i soldati israeliani, gli addetti alla demolizione delle proprietà palestinesi e i volontari che le proteggevano: la regista ci mostra l’ennesima generazione cresciuta nella paura verso l’altro.
A proposito della collaborazione con Darwish, la regista ha espresso le difficoltà nel catturare il poeta sulla pellicola, conosciuto per la sua timidezza e per l’odio per la telecamera. Nonostante ciò, l’amicizia tra i due ha permesso di scoprire i momenti più intimi e nascosti della sua scrittura poetica, caratterizzata, come d’abitudine nella poesia araba, da una grande musicalità e cadenza. Vengono mostrate, infatti, alcune mu3allaqaat recitate da Darwish stesso, ad alta voce, davanti ad una platea ed accompagnate da musica, come una messa in scena, caratteristica che già presente nella trilogia che ritrae i tre grandi personaggi della musica egiziana e del mondo arabo: Umm Kulthum, Mohamed Abdelwahab et Farid Al Atrache.
Tutte le sue produzioni fino al 2002 sono legate al mondo della televisione, tuttavia, in seguito alla costruzione del muro di separazione in Cisgiordania, la regista decide di tentare con il cinema realizzando un documentario che medita sulla sua duplice identità di araba ed ebrea. Questa scelta è stata più dettata dalla necessità che dalla volontà della regista: a discapito della grande visibilità che le era stata garantita dalla televisione pubblica fino a quel momento, Bitton si vede costretta a spostarsi sul grande schermo per poter diffondere Muro, film che nessuna emittente televisiva sarebbe stata disposta a trasmettere in Israele.
Dalla decisione israeliana di erigere questo muro a difesa dei propri territori, e precisamente a partire dall’aprile 2002, dopo l’intensificarsi degli attentati terroristici palestinesi, l’idea di una barriera di sicurezza si è concretizzata sempre più fino alla sua assurda realizzazione, documentata con occhio vigile della telecamera. Questo documentario, un altro atto pacifista che milita per la comunicazione, è considerato la sua opera maggiore e una svolta artistica e professionale, per il cambio nella taglia della produzione e per il tono: Bitton si permette, in modo discreto, di mettere la sua identità complessa al centro ponendo domande e fissando la sua voce come personaggio anche nei film successivi.
Personale, ma mai in modo esplicito, è il viaggio che intraprende con Ziyara (2020) alla scoperta dei luoghi sacri e delle persone che fanno parte della memoria ebraica in Marocco. Bitton ripercorre con la camera la sua infanzia e la ziyara, per l’appunto, la visita ai santi, il pellegrinaggio, riscoprendo un’antica condivisione di momenti preziosi tra arabi ebrei (di arabi-ebrei avevamo parlato qui) e musulmani e raccogliendo le parole dei marocchini di oggi in un Marocco svuotato dagli ebrei, con l’obiettivo di ricordare il legame profondo tra le religioni monoteiste. Prima di Ziyara, la regista torna nella sua terra natia per scavare ancora una volta tra gli archivi storici e presentare la poco conosciuta vita di Ben Bakra (2001), uno dei dirigenti della sinistra nazionalista marocchina e del movimento dei Paesi terzomondisti durante la metà dello scorso secolo.
La volontà di creare un dialogo sembra essere un filo rosso per Bitton.
Conversazione Nord-Sud (1993) presenta un lungo colloquio tra due intellettuali, uno storico palestinese e un critico cinematografico francese, attorno alla scoperta per immagini delle reciproche storie. Da un lato, memorie del passato estremamente intime e personali raccontate da foto di famiglia, dall’altro, l’identità individuale si fonde con quella del proprio popolo e viene raccontata con immagini storiche. Il documentario nasce dalle prime note della “guerra delle civilizzazioni”, dal primo conflitto nel Golfo e da un nuovo incontro/scontro tra occidente e oriente dal quale la regista sente la necessità di creare un discorso col fine di dimostrare che c’è sempre qualcosa di cui vale la pena parlare.
Lo fa intendere anche in L’attentato (1998), un colpo di scena che esce dagli schemi del “conflitto” tra israeliani e palestinesi tramite interviste e incontri con i parenti degli attentatori-suicidi e le vittime dell’attentato di via Ben Yehuda, avvenuto nel settembre del 1997. La camera in continuo movimento esprime il caos di quella fatale giornata, per poi posarsi statica sulle famiglie, dalle cui parole nasce una rinnovata necessità di pace. Bitton offre la base per uno scambio che crea empatia reciproca e che sfocia in un’impensabile riunione tra i genitori di una ragazza rimasta gravemente ferita nell’attacco e i genitori di uno degli attentatori. La donna israeliana realizza quanto sia inverosimile arrivare a conoscere delle persone Palestinesi solo grazie ad un evento tanto tragico, come se la violenza fosse diventata l’unico legame e mezzo di comunicazione possibile tra i due popoli.
La complessità dei temi toccati da Bitton la rendono una regista molto dibattuta, soprattutto quando esplora la questione israelo-palestinese. In tutto quello che mostra, c’è un atto politico, “perché tutto è politica”, anche quando non se ne parla. I suoi film testimoniano un impegno umano e professionale che si batte per una migliore comprensione dell’attualità, della storia e delle culture del Medio Oriente e del Nord Africa.
Giulia Rizzotti
Fonti
- 2MTV, 2015, Mais encore avec Simone Bitton – 1ére et 2ème parties
- Meflah N., 2021. Et la vie continue. Entretien avec Simone Bitton, réalisatrice de Ziyara. Bande à part.
- Boltaski C., 1999. «L’Attentat» renoue les fils. Un docu réunit toutes les victimes d’un attentat en Israël pour un dialogue honnête. (Simone Bitton), Libération.