Il passato: l’Iran oltre i confini di Asghar Farhadi
Il passato (Le passé) è un film del 2013 scritto e diretto da Asghar Farhadi, uno dei registi il cui merito di aver ridato luce e vita al cinema iraniano degli anni 2000 è indiscutibile. Tra le sue opere più note è impossibile non citare Una separazione del 2011 che vinse l’Orso d’oro a Berlino alla sua 61esima edizione e ottenne il Golden Globe come miglior film straniero nel 2012.
Il passato, però, pur trattando inizialmente di un divorzio e mettendo in atto tutte le dinamiche del cinema del dubbio di Farhadi, non è Una separazione: prima di tutto Le passé è ambientato a Parigi, ben distante dalla Teheran borghese di Una separazione in cui l’Iran era non solo luogo ma personaggio evocativo di un determinato ambiente di cui il regista riusciva a sintetizzare senza mai essere moralista la condizione politica e sociale dello stesso, così come negli attori si poteva cogliere una certa tipologia di recitazione, gestualità e toni che ovviamente non si possono ritrovare ne Il passato girato in Francia.
Nonostante i dialoghi riescano in un qualche modo a ricordare le dinamiche del film del 2011 ambientato in Iran, non è Parigi a parlare stavolta come invece faceva Teheran in Una separazione. Questo paragone tra i due lungometraggi è necessario per capire su quali basi la critica ha reputato Le passé un film che si perde in alcune forzature pur rimanendo un’opera degna di nota e con punteggi altissimi.n nIl passato racconta una storia basata sulla complessità dei rapporti umani, un tema centrale nel cinema del regista iraniano che però ha sempre avuto premura di non copiare il maestro per eccellenza Abbas Kiarostami.
Gli elementi che ci fanno riconoscere la sua estrema abilità nel citare il cinema neorealista e quello francese anni Sessanta sono presenti nella prima parte di pellicola: ad esempio nel dialogo tra i due protagonisti che noi spettatori non possiamo udire perché lo vediamo dietro un vetro. Tanti altri dettagli riescono a rimarcare il genio del suo autore ma in alcuni, che riguardano più forse una sceneggiatura particolarmente (e forse troppo) elaborata, ci fanno perdere questa attenzione ai particolari per focalizzarla invece su fatti che si fanno sempre più numerosi in una narrazione inverosimilmente complessa.
Ahmad, interpretato da Ali Mosaffa, è un uomo iraniano che dopo quattro anni torna a Parigi per ultimare le pratiche di divorzio dall’ex moglie Marie (Bérénice Bejo). Una volta arrivato nella capitale francese scopre che questa non gli ha nemmeno prenotato un hotel e quindi dovrà restare in casa sua, ora condivisa con un altro uomo e i figli (uno avuto dalla relazione con Samir – Tahar Rahim – l’attuale compagno, e le due figlie da una relazione precedente a quella con Ahmad). Marie chiede all’ex marito di aiutarla a ritrovare un rapporto sereno con la figlia adolescente Lucie che da qualche tempo sembra in collera con lei: torna tardi da scuola e spesso rincasa dopo le undici di sera. Ahmad, che diventa perno attorno al quale ruotano gli eventi, riesce nell’impresa di riavvicinamento ma allo stesso tempo scopre un segreto che obbligherà Samir a fare i conti col passato e stravolgerà le prospettive dei personaggi.
Come in Una separazione, anche qui la casa in cui si muovono i protagonisti sembra un campo neutro pronto ad attutire i conflitti ma che allo stesso tempo opprime la scena e crea tensione: la vernice fresca che Marie ricorda ad Ahmad di non toccare resta sulla manica della maglietta dell’ex marito come un ricordo indelebile; la ferrovia limita l’abitazione da un lato e il giardino è circondato da un cancello che adulti e bambini devono aprire e chiudere per decidere se far entrare, accogliere, o limitare l’ingresso di qualcuno o qualcosa, come in questo caso il passato.
La palette colori è fredda e il mal tempo è una costante: spesso se gli attori non sono ripresi in casa mentre si tolgono abiti zuppi d’acqua o guardano in una semi-soggettiva dalla finestra la pioggia scorrere sul vetro, sono in macchina rappresentati da inquadrature laterali o da punti di vista che provengono dall’interno dell’abitacolo o dal bagagliaio.
Ma cosa non ha Il passato che invece avevano i precedenti film di Farhadi? Nonostante l’elaborata sceneggiatura, leitmotiv della produzione cinematografica del regista, sembrano mancare elementi chiave del cinema iraniano della scuola di Kiarostami: regista in grado di far suo anche il Giappone in quella Tokyo che tante analisi del suo ultimo film Qualcuno da amare scrivevano sembrare una Teheran. Bisogna considerare che quella di Le passé è stata però la prima esperienza “fuori sede” di Asghar Farhadi e senz’altro il pubblico, così come la critica, dopo About Elly (ben accolto nel 2009) e Una separazione si aspettavano un’intensità e un istinto espressivo maggiore da parte degli attori, insomma volevano vedere un film ambientato in Francia però iraniano.
Nel 2016 esce Il cliente (tra i preferiti di MediOrientiamoci!): solo dopo tre anni dall’esperimento parigino, infatti, Farhadi torna a Teheran vincendo due premi a Cannes e un Oscar come miglior film straniero. Al regista persiano però non piace giocare sempre in casa e torna in Europa due anni dopo, precisamente in un piccolo borgo della Spagna, con Todos lo saben (Tutti lo sanno) che non darà i frutti sperati: la realtà contadina della Penisola iberica appare infatti un pastiche che prende spunto da cartoline di paesaggi di campagna ed elementi che anche solo per il fatto di essere accompagnati dai volti degli attori Javier Bardem e Penelope Cruz, sembrano riportare un panorama esotico di cui Farhadi è affascinato più che conoscitore. Questo, accompagnato alle tinte calde che da sempre prevalgono nell’immaginario collettivo di una Spagna sol y mar, non ci fa riconoscere il regista innovatore della tradizione filmica iraniana neorealista. nnA posteriori si potrebbe constatare che Farhadi nelle sue sceneggiature “in trasferta” è stato più un esploratore (senz’altro molto bravo) che ha voluto cimentarsi in ambienti poco conosciuti o idealizzati: proprio quegli ambienti, però, che nelle produzioni iraniane sono fulcro di un’espressività che lo rende unico e che invece altrove devono conquistare lo spettatore con trame quasi inverosimili o troppo elaborate, lontane dall’anima del cinema del vero che lo contraddistingue.
Erika Nizzoli