Viaggio a Kandahar: le testimonianze lungo il confine tra finzione e realtà di Mohsen Makhmalbaf
Vi ricordate il protagonista di Close Up che nel 1990 si spacciava per il noto regista Mohsen Makhmalbaf nel film scritto e diretto da Kiarostami? È proprio lui, Makhmalbaf, che ritroviamo questa volta in carne ed ossa nella direzione di Viaggio a Kandahar del 2001, portato sul grande schermo durante una delle crisi più acute della storia dell’Afghanistan. Crisi che sembra ripetersi a distanza di vent’anni dopo il ritiro delle truppe statunitensi e la salita al potere dei taliban, tema su cui mantenere acceso un dibattito è fondamentale. Per questo e per tanti altri motivi oggi è necessario vedere Viaggio a Kandahar: per capire il presente e ripercorre ciò che la popolazione afghana ha vissuto e sta vivendo nuovamente.
Nafas è una giornalista scappata dall’Afghanistan dopo tragici avvenimenti e guerre che hanno distrutto il suo paese; quando decide di ritornarci è l’estate del 1999: sua sorella le ha scritto che ha intenzione di togliersi la vita a causa di un matrimonio infelice in una terra che ormai è saccheggiata come la sua anima. La lettera, quindi, preannuncia un suicidio che sembra dover coincidere con l’ultima eclissi del secolo. La protagonista vuole impedire quel gesto estremo e per farlo decide di tornare in Afghanistan passando per il deserto al confine con l’Iran. Dovrà affrontare sequestri di veicoli sui quali le viene offerto un passaggio, accettare aiuti da un ragazzino che continua a chiederle elevate somme di denaro per indicarle la strada giusta fino a conoscere un medico che si finge far parte dei taliban ma che scopriremo presto essere in realtà un afroamericano arrivato per combattere i russi e poi rimasto sul territorio in missione di solidarietà. Insieme a lui raggiunge un campo di assistenza della Croce Rossa dove uomini mutilati dalle mine pregano con insistenza i medici per ottenere un paio di protesi. Nafas vede poi in lontananza un corteo di donne che indossano burqa colorati, la loro destinazione è Kandahar per la celebrazione di un matrimonio, così la protagonista si mescola al corteo facendosi passare per una parente della sposa.
Nella sezione ‘speciali’ del DVD del film vi è un’intervista in cui Makhmalbaf insiste su come l’idea originale fosse quella di girare un documentario tratto dal racconto della protagonista interpretata da Niloufar Pazira: lei stessa infatti era emigrata in Canada dall’Afghanistan ed è la sua storia, o meglio quella di un’amica, che racconta il regista iraniano.
Vi sono molte sequenze che sfiorano il confine tra messa in scena e realtà dove il profilmico entra a far parte della diegesi e viceversa senza una scelta rigida di ciò che deve essere inteso come finzione e ciò che deve essere riconosciuto come elemento della realtà. Una delle sequenze emblematiche al riguardo è quella girata nel campo della Croce Rossa in cui protesi di gambe appese a paracaduti sembrano piovere dal cielo come una grazia divina mentre uomini in stampelle le rincorrono per accaparrarsene un paio. nAltro aspetto sottolineato dal regista è che sarebbe stato impossibile girare il film interamente in Afghanistan e per questo il deserto che vediamo è quello iraniano, anche se non certo esente dalla distruzione portata da una guerra.
Makhmalbaf racconta di come durante il periodo di riprese lui e la sua troupe abbiano visto sotto i loro occhi persone morire di fame o di malattie e spiega che una scena apparentemente surreale come quella della caduta delle protesi dal cielo distribuite da un elicottero, in un determinato contesto sia molto più realistica di altre immagini. Si vedono anche i volti delle persone, diventate comparse, che hanno accompagnato le riprese del film: persone che portano segni reali di questa tragedia e che il regista confessa aveva paura potessero morire da un giorno all’altro a causa della loro debilitazione.
Nella marea di informazioni e immagini trasmesse da quotidiani e telegiornali nell’ultimo mese sembrano essersi viste scene montate e riproposte su misura: frame e sequenze a cui purtroppo persino i nostri occhi si sono abituati e questo non a causa del ripresentarsi di una storia drammatica, quella dell’Afghanistan, ma a causa di una scelta stilistica improntata alla similitudine e alla ripetitività.
Le scene di cui siamo spettatori sembrano identiche l’una all’altra e non restituiscono la verità della condizione del popolo afghano come dovrebbe essere proiettata e descritta a immagini e a parole. In questo è riuscito Mohsen Makhmalbaf nel 2001: ha caricato di significato e senso una vicenda che avrebbe rischiato di confondersi in mezzo alla miriade di foto che scorrono sullo schermo presentando sempre la “stessa storia”, quella a cui la stessa ripetitività rischia di togliere drammaticità.nnVi consiglio la visione del film noleggiando il DVD perché l’intervista a Makhmalbaf può essere d’aiuto a comprendere ancora meglio quella sottile divisione tra finzione e realtà, tra scelta stilistica e “imposizione” della messa in scena data dal contesto.
Erika Nizzoli