Nadia Murad: “Non vogliamo compassione, vogliamo giustizia”

«Vi ringrazio molto per questo onore, ma gli unici premi al mondo che potrebbero mai ripristinare la nostra dignità sono la giustizia per noi e il processo per i criminali».

È il 2018 e Nadia Murad, una giovane donna di venticinque anni, è la prima irachena a vincere il premio Nobel per la pace. Nadia è una yazida, ovvero appartiene all’omonima minoranza religiosa di etnia curda che, da secoli, subisce discriminazione sistemica e genocidi brutali.

Con lo sguardo fermo, gli occhi profondi a fissare la platea in ascolto, e la voce controllata di chi sa di pronunciare grandi verità, Nadia getta nuovamente luce su una situazione a lungo taciuta. La giovane attivista non ha paura di puntare il dito e di ricordare che, dopo l’assalto dell’agosto 2014 in cui 10.000 yazide e yazidi caddero fra le mani dell’ISIS, si sono perse le tracce di 3.000 di loro e la comunità internazionale ha fatto ben poco per aiutarli e per fare giustizia. Le parole del suo discorso riempiono la stanza.

«Nel ventunesimo secolo, nell’era della globalizzazione e dei diritti umani, più di 6.500 bambini, bambine e donne yazide vennero rapite per essere vendute, comprate e abusate, psicologicamente e sessualmente».

Proprio per il suo impegno contro il traffico di esseri umani e lo sfruttamento sessuale, particolarmente nell’ambito di conflitti armati, Nadia ha vinto il Premio Nobel.

La sua storia è emblematica. Nata a Kojo, nella regione irachena del Sinjar – a maggioranza yazida, nel 1993, Nadia ha ventuno anni quando un ennesimo atto di brutale violenza viene compiuto ai danni della sua comunità. L’autoproclamato Stato Islamico, guidato da Al-Baghdadi, entra nella piana di Ninive e si accanisce contro la popolazione yazida, uccidendo e rapendo migliaia di loro.

I miliziani entrano anche nel villaggio di Nadia, massacrando centinaia di uomini yazidi. Fra questi ci sono i suoi fratelli e i rispettivi figli. Anche la madre di Nadia morirà nel conflitto e, come ricorda lei stessa durante il suo discorso, ogni yazida può raccontare storie simili: tutti hanno subito lutti e violenze.

«[L’ISIS] ha portato avanti questo genocidio per la sola ragione che siamo yazidi, con credenze diverse e diverse abitudini, che sono contrarie all’omicidio, al rapimento e alla schiavizzazione delle persone».

La storia yazida è costellata di attacchi e discriminazioni. Al momento in cui Nadia ritira il premio, quattro anni dopo la strage, ancora nulla di ciò che Daesh aveva distrutto era stato ricostruito. Giustizia non è ancora stata fatta.

Accettando il premio, Nadia mette in chiaro due punti fondamentali.

Il primo è che le minoranze soggette a tali trattamenti sono numerosissime, in tutto il mondo, e che la solidarietà non basterà a proteggerle. La prima azione che la comunità internazionale dovrebbe intraprendere sarebbe quella di istituire un sistema di protezione efficace e sicuro per tutte le popolazioni che rischiano lo sterminio per il solo fatto di esistere.

In secondo luogo, ricorda ai suoi ascoltatori e alle sue ascoltatrici che nessun criminale è stato ancora processato o punito per ciò che è stato commesso nel Sinjar. È questo che lei, e tutte le popolazioni soggette a violenze e crimini puniti dal diritto internazionale, chiedono: che i criminali vengano ricercati, processati e puniti adeguatamente.

Murad sottolinea di non voler compassione. Dopo il riconoscimento del genocidio, agli yazidi è stata data molta compassione ma poco altro. Non desidera compassione per il suo popolo: pretende giustizia.

«È incomprensibile come la coscienza dei leader di 195 paesi del mondo non si sia mobilitata per liberare queste ragazze. E se fossero state un accordo commerciale, un giacimento petrolifero o un carico di armi? Quasi sicuramente, non ci si sarebbe risparmiati per liberarle».

Proprio come moltissime delle donne rapite nel 2014 dall’ISIS, Nadia era passata di mano in mano fra i miliziani, venduta come un oggetto e stuprata ripetutamente. Oltre alle percosse e alle violenze sessuali, le yazide erano costrette a rinnegare la propria religione per diventare mogli dei soldati del sedicente califfato.

Dopo tre mesi di prigionia, Murad riesce a fuggire dal giogo dei suoi aguzzini, riuscendo a scappare durante un momento di distrazione del suo carceriere. Una famiglia di Mosul, dove era tenuta prigioniera, l’aiuta a nascondersi e le facilita il viaggio verso un campo profughi. Da lì Nadia viaggerà fino a Stoccarda, in Germania, dove vive attualmente.

Dalla sua liberazione, Nadia lotta per contrastare le violenze a cui molti popoli sono soggetti, oltre che per le donne e i bambini che spesso pagano conseguenze psicologiche e fisiche altissime nei contesti di guerra. Ha dato vita a una fondazione che porta il suo nome, oltre ad essere stata nominata ambasciatrice ONU per la dignità dei sopravvissuti nel 2016 e, nello stesso anno, aver vinto il Premio Sakharov per la libertà di pensiero.

«Lasciateci combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Lasciate che alziamo le nostre voci e che diciamo: “No alla violenza. Sì alla pace. No alla schiavitù. Sì alla libertà. No alla discriminazione razziale. Sì all’equità e ai diritti umani per tutti. No allo sfruttamento delle donne e dei bambini. Sì al dare loro una vita decente e indipendente. No all’impunità per i criminali. Sì a ritenerli responsabili e al raggiungimento della giustizia».

Avana Amadei

Fonti

  • Enciclopedia Treccani: Nadia Murad
  • The Nobel Prize: Nadia Murad
  • Discorso di Nadia Murad alla cerimonai di consegna del Premo Nobel per la Pace, 2018

Articoli simili