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Shadia Mansour: l’identità palestinese nell’hip hop

“Our existence today is resistance. We are facing media that misrepresent our people. Not just the Palestinian people but also the Arab people. That’s why we have to preserve everything; it’s a matter of existence”.

SHADIA MANSOUR, 2014

Flow serrato su musica hip hop, voce decisa e due trait d’union tra tutti i brani: la Palestina e l’identità palestinese. Questi i tratti di riconoscimento di Shadia Mansour, MC anglo-palestinese a cui è stato attribuito il titolo di “first lady dell’hip hop arabo”. 

Classe ‘85, Shadia Mansour si definisce una “palestinese della diaspora, non palestinese della Palestina”. Nata a Londra da genitori palestinesi di Haifa e Nazareth, si avvicina alla musica sin da bambina; cresce nella dualità di essere araba e palestinese nata in Occidente, riuscendo a vivere la sua terra di origine solo per pochi mesi all’anno. Vive però tra le due metà, tra due contesti culturali e di vita differenti, e crescendo comprende sempre più le lotte politiche vissute fin dall’infanzia. 

Ciò che contraddistingue Shadia Mansour e che le è valso il nome di “first lady dell’hip hop arabo” si spiega da solo in questa denominazione: è donna, fa hip hop in arabo, ed è tra le prime donne a farlo. 
L’hip hop arabo – o meglio, hip hop in arabo – conosce numerosi rappresentanti e non è nato con Shadia Mansour, che non apprezza la distinzione tra hip hop palestinese e hip hop occidentale: 

“La sola differenza tra l’hip hop palestinese e l’hip hop occidentale è la lingua. E basta”.

Infatti, nello spiegare il suo avvicinamento al genere, Mansour riconosce il ruolo che l’hip hop ha sempre avuto fin dalle sue origini: quello di mezzo per esprimersi, attraverso il ritmo e la poesia. Vivere l’identità palestinese come atto di resistenza – “la nostra esistenza oggi è resistenza”, dice in un’intervista – e la sua necessità di esprimerlo al mondo passano quindi attraverso un genere fortemente politico, diretto, schietto e dalle rime intricate. 

Fonte: Shadia Mansour, profilo Facebook

Tra le sue ispirazioni ci sono i Public Enemy, gruppo hip hop statunitense tra i simboli del genere e parte del filone dell’hip hop “politico”; ascoltandoli, Mansour empatizza con la sofferenza che sente nei loro testi. Per lei l’hip hop in arabo è una forma di rivolta che si compie alzando la voce e richiedendo che la propria presenza e la propria esistenza vengano viste e riconosciute. La voce diventa uno strumento di resistenza, a maggior ragione se è una voce femminile: in un contesto musicale – tanto occidentale quanto orientale – che non predilige la presenza femminile in un genere come l’hip hop, Mansour alza la voce, la usa e non ha paura di farlo, prendendosi il suo spazio.

La carriera musicale di Shadia Mansour inizia nel 2003, anno in cui inizia a rappare, ma è con l’uscita del brano “Al Kuffyyeh 3Arabiyyeh” nel 2013 che guadagna riconoscimento e popolarità a livello globale. 
Nelle sue esibizioni dal vivo indossa sempre il thawb, un abito tradizionale palestinese dalle maniche lunghe e con ricami tradizionali. Vi sono due motivi dietro la scelta del thawb come abito di scena: da una parte, il rifiuto della sessualizzazione della donna nel mondo dell’hip hop; dall’altra, la crucialità della memoria e della conservazione della propria eredità culturale, espressa anche nell’utilizzo della lingua araba palestinese come lingua in cui rappare:

“[…] per esempio, indosso il vestito tradizionale non perché voglia indossare un abito, ma perché è parte della mia eredità culturale. Perché dovrei indossare RocaWear o qualcosa che ha disegnato Jay-Z?”

Shadia Mansour, intervista per SAMAR Media, 2014
Shadia Mansour in un thawb. Fonte: Shadia Mansour, profilo Facebook

Nel corso della sua carriera, Mansour ha collaborato con artisti e artiste di diverso calibro, alcuni dei quali proprio sua fonte di ispirazione. Tra questi vi sono Johnny Juice dei Public Enemy alla produzione, il rapper anglo-iracheno Lowkey, il rapper M1 dei Dead Prez, Ana Tijoux nel brano “Somos sur”, il gruppo palestinese DAM nel brano “Kollon 3endon Dadabaat” e il rapper Mahmood Jrere (dei DAM) nel brano “Baddi Salam”. Nel 2022 ha partecipato al brano “Hamdulillah” per la serie tv di Netflix “Mo”. In “Halhamdulillah” non si dedica al rap, che è lasciato al rapper The Narcysist, ma adopera la voce in maniera corale, portandola al pubblico in una nuova veste.
Non ha mai pubblicato album o EP e la sua discografia è composta solamente da singoli, che si possono trovare prevalentemente su SoundCloud. Consigliamo qui una playlist con la maggior parte dei suoi brani:

Al Kuffyyeh 3Arabiyyeh

Di questi singoli, a portarla alla ribalta è stato “Al Kuffyyeh 3Arabiyyeh”, ovvero “La kefiah è araba”, in collaborazione con il rapper M1 dei Dead Prez, duo hip hop dedicato all’hip hop politico. Uscito nel 2013, il brano si focalizza sull’identità della kefiah, bandana tradizionale palestinese dalle trame nere su tessuto bianco, che è in qualche modo speculare a quella di Mansour. In una traduzione del testo concessa in un’intervista di Samar Media, tanto Mansour quanto la kefiah “non importa dove la metti, rimane fedele alle sue origini: palestinesi”. 

Nel raccontare l’origine della canzone, Mansour spiega che il testo è stato scritto dopo aver visto la produzione da parte di un brand statunitense di una kefiah palestinese adattata all’estetica israeliana, dal colore bianco e azzurro e con ornamenti in lingua ebraica. Dalla rabbia nel vedere la privazione di un elemento tanto simbolico della propria identità è nato il brano. In un concerto a New York, il brano è stato aperto con un’esclamazione di Mansour: “you can take my falafel and hummus, but don’t fucking touch my kuffyyeh”. Il riferimento è all’appropriazione che Israele fa di frequente nei confronti di prodotti tipicamente palestinesi e arabi nel cibo, di cui abbiamo parlato qui.  

Per gli appassionati e appassionate di poesia, Shadia Mansour cita nelle sue barre il poeta palestinese Mahmoud Darwish e la poesia “Carta di identità”: la poesia di Darwish è caratterizzata dall’anafora “Ségnalo! Io sono arabo” (in arabo: “سَخَّل! أنا عربي”), pronuncia: sajjal! Ana ‘arabi; Shadia Mansour riprende questi versi, celebri e immediatamente riconoscibili, dichiarandosi come sé stessa: “Ségnalo! Io sono Shadia Mansour e la kefiah è la mia identità”.
A questo link trovate la versione originale della poesia di Darwish e alcune traduzioni libere non professionali in varie lingue.  

Somos sur

Un altro brano che le ha dato particolarmente risalto in quanto parte di un featuring è “Somos sur” della cantante franco-cilena Ana Tijoux, nel quale quello di Mansour è un cameo. Il brano è diventato particolarmente popolare per due ragioni: in primis, il brano è in spagnolo, lingua in cui canta Tijoux nella maggior parte dei suoi brani, e ha dunque un ampio raggio di diffusione anche in Occidente. Secondariamente, ha incontrato popolarità in quanto emblema di un sud globale che alza la voce contro l’oppressione e l’occupazione: il verso di Mansour, introdotto da una zaghroutah (suono urlato modulato con il movimento della lingua tipico di alcune aree del Medio Oriente e Nord Africa) che parte da lontano e diventa man mano più alta, è breve ma conciso. Introdotto dalla frase in spagnolo “ti voglio libera, Palestina”, il testo di Mansour riporta come sempre alla sua identità palestinese: dopo aver chiesto di “darle il microfono”, esordisce in un brano in due lingue dicendo che la musica è la lingua madre del mondo. Si pone dal lato di chi soffre e di chi resiste, in poche barre che lasciano di nuovo spazio al ritornello in spagnolo di Tijoux. 

Trovate a questo link una serie di traduzioni libere non professionali da parte di vari utenti, che possono aiutare a rendere a grandi linee il significato delle parole delle due artiste.

Chiara Ricchiuto

Fonti

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