Close Up di Abbas Kiarostami: l’innocenza dell’inganno
«Ogni film bello che guardo mi fa rinascere» dice Hossain Sabzian seduto al centro del sofà di casa Ahankhah. Ed è effettivamente una sorta di rinascita quella che si prova dopo aver visto Close Up di Abbas Kiarostami, un’opera maestra che gli fece vincere il premio Roberto Rossellini nel 1992 a Cannes.
La trama è essenziale, silenziosa, come in ogni film del regista iraniano: Hossain Sabzian, un uomo giovane, divorziato, disoccupato e amante del cinema, si spaccia per il noto regista Makhmalbaf per entrare nelle grazie di una ricca famiglia a cui promette di dare una parte principale nel suo prossimo film. Sabzian sentendosi per la prima volta rispettato e stimato non riesce ad uscire dalla parte che interpreta e lascia che gli stessi componenti della famiglia scoprano la sua vera identità fino a ciò che lo porterà all’incarcerazione per frode.
Fare il cosiddetto cinema della realtà non vuol dire ritrarla per intero ma raccontarne delle parti: proprio come nella vita di ogni giorno non potremmo seguire le dinamiche di un evento dalla prima all’ultima e con esse le parole dette da ogni persona coinvolta. Questo è il cinema che racconta una verità, verità che è però interpretata e soggettiva, e come diceva lo stesso Kiarostami: «Il cinema sta alla realtà come la realtà sta al cinema». Ecco perché il semplice rotolare di una bomboletta d’alluminio diventa elemento essenziale per la ricostruzione di questa realtà soggettiva: l’attenzione si avvicina ad un gesto apparentemente trascurabile ma imprescindibile per la ricostruzione delle dinamiche realistiche di una trama.
Altra caratteristica di Close Up è quella di raccontare attraverso flashback vicende precedentemente suggerite: l’incontro con la signora Ahankhah, l’arrivo della polizia in casa della famiglia per arrestare il protagonista e i tentativi di ricerca di uno scoop da parte del giornalista, figura che all’inizio del film ci introduce ai fatti accaduti. La retrospettiva di Kiarostami restituisce un quadro su diversi punti di vista e il linguaggio metacinematografico (capo saldo della sua cifra stilistica) dimostra come l’utilizzo di attori che recitano la parte di loro stessi renda una velata bugia estremamente reale. La metafora metalinguistica, però, non si ferma qui: Kiarostami, come gli altri personaggi, appare nella pellicola nella parte di se stesso nella scena in cui interroga Sabzian prima del processo.
È nel finale però che il cinema nel cinema raggiunge l’apice della sua messa in scena: il vero Makhmalbaf accompagna in moto Sabzian a casa della famiglia Ahankhah in quello che sembra un intento di riappacificazione sincera; i due sono seguiti da una macchina: l’inquadratura in soggettiva non ci permette di vedere Kiarostami ma ad un certo punto ne udiamo la voce; Makhmalbaf indossa un microfono che gli è stato dato dalla troupe. Il microfono è difettoso quindi non possiamo ascoltare l’intera conversazione con Sabzian ma sappiamo di certo che quello che sta avvenendo è il tentativo di riprese del film o documentario di Kiarostami sulla storia di Hossain Sabzian, il quale aveva espressamente chiesto, prima della scena del processo, di fare un film sulla sua sofferenza.n
Un’opera geniale, da voti della critica alle stelle: lo stesso Nanni Moretti nel 1996 omaggiò la prima proiezione italiana del film con un cortometraggio intitolato Il giorno della prima di Close Up mentre i registi iraniani continuano e continueranno sempre a renderlo indimenticabile come, ad esempio, in I bambini del paradiso di Majid Majidi del 1997 dove una scena sembra riproposta tale e quale da quella di Close Up: padre e figlio vanno a Teheran nord fiduciosi di trovare un incarico per guadagnare qualche soldo; arrivano in una via di imponenti ville bianche oscurate da portoni insormontabili; suonano i citofoni ma nessuno risponde, nessuno cerca un giardiniere a parte un uomo che finalmente apre la porta. Nel 1990 Kiarostami girò questa scena per primo: il giornalista avido di notizie da prima pagina va alla ricerca di un registratore che gli sarebbe servito per il suo scoop sulla notizia del falso regista; corre da un portone all’altro e suona a tutti i campanelli ma le risposte sono negative fino a quando finalmente trova qualcuno che glielo presta.
Nel 2012 la pellicola è stata inclusa dal British Film Institute tra i cento migliori film della storia del cinema.
I critici che ebbero l’onore di intervistare Abbas Kiarostami scrivono che lui stesso affermò che si rese conto di voler diventare regista dopo aver visto Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, confessione da cui trapela una volta per tutte l’elemento neorealista: la camera silenziosa, inerme ma attenta, prende parte in ogni sua opera proprio come faceva Cesare Zavattini (sceneggiatore della maggior parte dei film di De Sica) indugiando in primi piani sui volti dei piccoli Sciuscià affamati nell’immediato dopoguerra italiano… Ma cos’è che li accomuna tanto?
A far sentire queste regie così vicine è il ‘segno’ mai marcato e talvolta labile di un linguaggio in realtà estremamente poderoso in cui ogni spazio lasciato vuoto (in dialoghi e sinossi) si riempie di drammaticità. A render tale questa regia è la maestria del saper togliere anziché aggiungere, di parlare sottovoce anziché urlare. Se in Close up Kiarostami insiste sul primo piano di Sabzian, testimone e vittima di una popolazione che esce stremata da anni di guerra con l’Iraq in un paese dove nemmeno i più agiati trovano ormai lavoro (vediamo infatti che Mehrdad Ahankhah è ingegnere ma lavora in una panetteria), il neorealismo italiano dipinge i ritratti dei suoi ‘non attori’ trasmettendo allo spettatore quella disperazione che il cinema aveva bisogno di esprimere per denunciare le conseguenze della guerra. nDisperazione e sofferenza sono gli elementi che Kiarostami trasforma in poesia e il mezzo filmico diventa lo strumento per raccontare la società. La maniera in cui l’umiltà fa da protagonista insegna ad essere umani e già prima di metà proiezione ci lasciamo trasportare dal candore e genuinità trasmessi da Sabzian tanto che lo perdoniamo del suo furto d’identità come perdoniamo Kiarostami per averci ingannato un’altra volta.
Erika Nizzoli