Najla Aqdeir: una corsa ad ostacoli verso la cittadinanza
Viene dalla Libia, ha 27 anni e vive in Italia da quando ne ha 11, è un’atleta professionista ma ancora non può indossare la maglia azzurra nelle competizioni internazionali, nonostante l’Italia sia il luogo dove ha studiato, lavorato e gareggiato da quindici anni a questa parte.
La sua è una storia di riscatto, ostacolata da un lato dalle diatribe familiari, dall’altro dalla burocrazia che, come spesso accade nell’ambito dell’immigrazione, risulta essere zoppicante.
“L’atletica mi ha salvata”
Mamma marocchina e papà libico, si trasferisce a Milano con le sue sorelle nel 2005: alle scuole medie inizia a gareggiare nelle corse campestri e si avvicina sempre più all’atletica. La pratica sportiva non viene vista di buon occhio dai suoi genitori: una ragazza che corre con braccia e gambe esposte non rispetta i precetti religiosi islamici, ma Najla riesce a trovare con loro un compromesso allenandosi in tuta.
Finché a 14 anni, durante un’importante gara di cross trasmessa in televisione, suo padre la vede gareggiare in pantaloncini, non lo accetta e l’atletica diventa argomento di discussione e allontanamento tra lei e la sua famiglia: “Non guardava mai le mie gare, ho pensato che da quel momento non avrei più potuto correre”.
Grazie all’aiuto del parroco del suo oratorio e al suo allenatore, riesce a continuare ad allenarsi a fasi alterne, ma a 15 anni, con la scusa di fare un viaggio di famiglia, sua madre la porta in Marocco: aveva organizzato per la figlia un matrimonio combinato con un uomo di quasi quarant’anni, che lei nemmeno conosce.
Seppur ancora una ragazzina, aiutata dal suo allenatore che le compra un biglietto per il volo di ritorno, Najla riesce a trovare un escamotage per tornare in Italia e fuggire dal matrimonio, raccontando al padre di non essersi sposata perché l’uomo era marocchino e non libico come lui: una piccola bugia che maschera per poco la situazione, la quale degenera una volta che la madre rientra in Italia. In seguito a continue violenze fisiche e verbali subite dai genitori, Najla non regge il colpo e arriva a compiere un gesto estremo: tenta il suicidio ed entra in uno stato di coma per qualche giorno.
Al suo risveglio i suoi genitori non ci sono più, sono il suo allenatore e gli assistenti sociali a portarla in una comunità protetta: da quel momento, a 16 anni, desiderosa di essere autonoma, con la paura di non riuscire ad essere libera e di prendere una brutta strada, inizia a lavorare: da ragazza delle pulizie a barista, da modella a cassiera, trova comunque il tempo per allenarsi.
Oggi Najla vive da sola, ha aperto una partita IVA ed è riuscita a fare della sua passione il suo lavoro: è istruttrice presso il centro sportivo no profit PlayMore! a Milano, dove oltre ad insegnare ai bambini, segue il progetto RunChallenge, correndo con persone disabili e non, dimostrando che la corsa è anche inclusione ed integrazione, e può essere accessibile a tutti; è brand ambassador Nike, insegna atletica e non manca mai laddove c’è occasione per fare da testimonial e motivare chi non crede nelle proprie possibilità.
Gli ostacoli che ha superato sono tanti, ma ce n’è ancora uno che alle volte sembra invalicabile: la sua lotta contro la burocrazia.
“Quali sono gli step che hai dovuto affrontare per ottenere i documenti che ti permettano di soggiornare regolarmente in Italia?”
“Inizialmente, essendo minorenne una volta arrivata in Italia, avevo di diritto il permesso di soggiorno grazie a mia mamma che lavorava. Avevo 16 anni quando i miei genitori sono ritornati in Libia, una volta compiuti i 18 avrei dovuto convertire il mio permesso in un permesso per studio. Il problema è che per farlo serve presentare una fotocopia del passaporto: il mio era scaduto, e nonostante la mia richiesta di rinnovo la Libia non mi riconosceva come sua cittadina“.
Siamo nel 2011, anno in cui il Nord Africa è attraversato dalle Primavere arabe (termine con il quale si indicano le rivoluzioni che hanno interessato i regimi arabi tra cui la Libia): “Essendoci in corso delle rivolte, lo Stato probabilmente non aveva interesse e tempo per la mia richiesta”, è la spiegazione che si è data Najla.
Così, per non risultare clandestina e ritrovarsi in una situazione irregolare, ha fatto richiesta di asilo politico: “pensavo sarebbe stato un processo semplice, ma purtroppo non ho ricevuto grande aiuto dalla comunità in cui mi trovavo. Ho provato, come fanno in tanti, a fare la fila al di fuori della questura perché sapevo che ogni giorno avrebbero dato a cinque persone il diritto di asilo politico. Alla fine, dopo 1 anno dalla domanda ed il superamento di 8 mesi di prova, ho ottenuto l’asilo politico, potendo così soggiornare e lavorare regolarmente in Italia.“
Gli intoppi con la burocrazia sono continuati negli anni; di recente, in vista della scadenza della durata del permesso, ha come tutti fatto la domanda per il rinnovo:
“Ho presentato i documenti per il rinnovo ma in Questura li hanno persi. Non me la sento di lamentarmi ed incolpare nessuno, per quanto sia frustrante, quello che penso è che essendo la mia una situazione complicata hanno inizialmente archiviato il caso, andando alla fine a smarrire i documenti utili per il rinnovo. Ho dovuto rifare il processo da capo, ma ancora una volta si è presentato il problema del passaporto: sotto il consiglio di alcune persone che mi hanno seguita ed aiutata in questa delicata fase, una sera ho preso un autobus per andare in Francia, e finalmente dopo 8 mesi sono riuscita a rinnovarlo“.
Oggi Najla risiede regolarmente in Italia con un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria (che, a differenza dell’asilo politico, le permette di poter viaggiare all’estero), ma le manca ancora uno step: diventare cittadina italiana.
“La cittadinanza la si può ottenere dopo 10 anni di residenza in Italia, io sono ormai 16 anni che vivo qua. Molte persone sono bloccate dal fattore economico, perché bisogna pagare per ottenerla: il mio principale problema è che mi mancano dei documenti (come il certificato di nascita, che non riesco ad ottenere dal governo libico), e solo di recente ho ottenuto nuovamente il permesso di soggiorno. L’unica opzione che ho al momento sarebbe quella di pagare un notaio (la cifra che mi hanno presentato è però molto alta)“.
In Italia la cittadinanza è attribuita ius soli, ovvero grazie all’essere nati sul territorio italiano, la si può in alternativa richiedere in seguito ad un matrimonio o se legalmente residenti in Italia da 10 anni. E’ forse necessaria una riforma che apra allo ius culturae, ovvero il diritto alla cittadinanza per chi studia o lavora in Italia da un certo numero di anni?
“Non sta a me decidere i termini di una riforma” dice Najla, “ma penso che l’essere arrivata qui da bambina, aver studiato, avere un lavoro e una casa, dovrebbero essere dei requisiti sufficienti per poter essere definita cittadina italiana. Spero si faccia presto qualcosa per risolvere la situazione di chi, come me, si trova in attesa di una documentazione che possa in qualche modo definirci.“
Alessandra Soldi