Il gioco di De Niro – Un’occasione persa e una bromance mancata

Nel cinema esiste un filone narrativo che va da Novecento di Bernardo Bertolucci a Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, passando per I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee. I film precedentemente citati sono tutti estremamente diversi e compararli tra loro appare come un esercizio di stile quanto mai azzardato. Tuttavia, seppur differenti, questi lungometraggi sono accomunati da un’idea di fondo sempre molto affascinante: quella di indagare la tensione omoerotica di due personaggi o di approfondire il legame tra due uomini e/o amici utilizzando il contesto circostante come sfondo ai mutamenti e al resistere del loro rapporto.

Anche la letteratura ha utilizzato questo espediente narrativo per produrre notevoli opere letterarie: dai libri da cui furono tratti i film precedenti (con differenti gradi di capacità narrativa) alla bromance Sam-Frodo nel capolavoro di Tolkien, passando per il recente Il cacciatore di aquiloni sull’amicizia di due giovani afgani sfidata dalla storia e dal tempo. Titoli completamente diversi tra loro ma con simili relazioni in grado di raccontare qualcosa di interessante.

Sono molti i libri che narrano del legame tra due uomini e che attingono dal loro rapporto per creare una storia originale, profonda ed emozionante, libri in grado di emozionare e creare forte empatia, quasi un’alchimia teatrale capace di isolare i due personaggi dal resto del contesto e al contempo capaci di sfruttare il contesto per il progredire dell’arco narrativo degli stessi. Il gioco di De Niro di Rawi Hage ha per un momento illuso di voler intraprendere quella strada ma se n’è subito distanziato, perdendo un’ottima occasione di investigare il rapporto tra due giovani uomini della “Beirut cristiana” durante la guerra civile libanese (1975-1990).

Bassam e George sono due giovani cristiani, più per etichetta che per reale credo religioso, confinati nella porzione est della città di Beirut. Ragazzi costretti a vivere di espedienti tra case distrutte e violenza nel corso della feroce contrapposizione tra cristiani e musulmani (e palestinesi) durante la guerra civile libanese. Mentre George si arruola nella milizia per poter campare ed esercitare la propria influenza sul quartiere, Bassam intraprende una serie di azioni controverse per cercare di racimolare i soldi necessari ad andare in Europa. La storia viene narrata seguendo il punto di vista di Bassam e racconta il mutare delle relazioni con la ragazza di cui è infatuato, con la madre, con la zia di George, e infine, con l’amico fraterno. Relazioni incapaci di resistere al proseguo della guerra e all’imperversare della violenza.

Rawi Hage decide di narrare di come la guerra allontani Bassam e George fino a diventare sconosciuti l’un l’altro e come il conflitto armato riesca a far rimanere intrappolati i due ragazzi nella stessa violenza da loro innescata. Con un finale che cerca, attraverso un colpo di scena ambientato nella Parigi aristocratica, di sconvolgere lo spettatore e di ridisegnare l’arco narrativo di George, l’opera di Hage risulta un libro di piacevole lettura, un testo asciutto e isterico sugli effetti della guerra e i suoi costi psicologici. Un libro certamente gradevole ma in grado di sprecare un’occasione pazzesca.

Attraverso un esercizio di stile proviamo a calarci in una semplice scena (e per nulla fondamentale) del libro: George e Bassam sono sulla moto del primo ragazzo e sfrecciano per le strade distrutte di Beirut con il vento tra i capelli e il sudore appiccicato ai vestiti, due corpi che si sfiorano e si toccano, il tutto accompagnato da una semplice frase dell’autore che indica come uno dei due senta la pistola dell’altro premergli contro la schiena. In questa semplice e innocua scena, in cui l’ambiguità non viene indagata, si spezza quella che poteva essere un’altra versione del testo narrativo: quella con George e Bassam che da amici (o forse di più) affrontavano gli sconvolgimenti della guerra, non tanto sulla loro psiche, quanto più sul rapporto unico e viscerale che li univa. In questa versione George e Bassam avrebbero dovuto resistere e sopravvivere a sé stessi, agli effetti che la guerra avrebbe avuto sul loro rapporto e alle scelte sbagliate di entrambi. In questa versione George e Bassam sarebbero stati il punto focale della storia e il loro rapporto un bracere in grado di far ardere un libro che, basato soltanto sulla dimensione bellica, fatica ad accendersi.

Fonte immagine: playgroundeditore.it

Esiste all’interno del sistema editoriale e cinematografico una domanda a cui non si può rispondere in maniera avventata: di chi è l’opera una volta pubblicata? La risposta più ovvia è dell’autore, quella più complessa è che anche chi usufruisce del testo ne diventa inevitabilmente parte e attraverso la sua immaginazione o le sue emozioni contribuisce a sostenere la storia, a crearla e a diffonderla.

Non vogliamo rispondere in maniera affrettata a questa domanda, seppur di gran lunga affascinante. Quello che è certo è che lo scrittore ha una sua storia e la mette su carta, a lui spetta decidere che direzione debba prendere una storia ma in questo caso, seppur il testo di Hawe non sia affatto brutto, l’autore sembra aver intrapreso la scelta più ovvia e pavida possibile. Una scelta in grado di privare il pubblico di un potenziale splendido e profondo rapporto tra i due personaggi protagonisti, di un’amicizia intensa in un contesto precario come quello della guerra civile libanese, di una storia d’amore su una moto che sfreccia tra i checkpoint e i cecchini delle case distrutte di Beirut.

Luigi Toninelli

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