Io Capitano di Matteo Garrone: tentativi di realtà con un pizzico di magia

A volte si parla di Matteo Garrone come di un regista del realismo magico contemporaneo, visionario e impavido ma in Io Capitano a parte qualche accenno di forzata magia anche di realtà, intesa come vera e cruda e quindi non tratteggiata a mero scopo descrittivo per seguire il filo del racconto, il film sembra esserne carente. Le opinioni sono ovviamente molto contrastanti: Io Capitano vuole essere un film politico ma di questi ce ne sono a iosa e diventa quindi impossibile non soffermarsi anche sull’uso dello strumento mediatico utilizzato, ovvero il linguaggio cinematografico.

Leggendo alcune recensioni, qua e là, si dice Garrone non abbia avuto paura di mettere in scena le “crudeltà”: le torture atroci delle carceri libiche, le innumerevoli e altissime probabilità di perdere la vita lungo un tragitto che  parte dal Senegal, per poi attraversare il Mali, il Niger, il deserto del Sahara fino alla Libia e il Mar Mediterraneo ma se si prende in analisi l’intero film, raccontato attraverso questi contenuti di una crudeltà indescrivibile (che formano l’anima reale dell’opera), ci si accorgerà che il tutto è filtrato da un protagonista che incarna un eroe imperturbabile, sempre pronto a farsi avanti e piuttosto sognatore: non è, quindi, il suo punto di vista deformato sin dal principio?

Dopo ventiquattro ore, pensando al film, mi sono accorta che non mi era rimasto quasi nulla, che non sapevo come commentarlo a parte il retorico qualche giudizio retorico. Sì la storia che raccontano i due sceneggiatori, Matteo Garrone e Massimo Ceccherini, non lascia indifferenti: davvero le persone muoiono sotto il sole del Sahara, nelle prigioni libiche e in mare, ma ciò che mi permette di dimostrare qualche riserva nel dire che sia un prodotto cinematografico ben riuscito è che manca una meta ben precisa, non vi è né la concettuale né la stilistica, senza prendere in considerazione due momenti in cui l’elemento magico viene introdotto in maniera forzata e risulta di ben poca utilità ai fini della sinossi o persino per rimarcare una cifra espressiva personale; anzi talvolta allontana ulteriormente dalla realtà delle condizioni dei due giovani. In effetti non è “tutto vero” e a far prendere coscienza di questo è fondamentale soffermarsi sulla prima parte del film che ricorda le dinamiche di un road movie americano più che quelle di una fuga drammatica: Seydou e Moussa sanno che vogliono lasciare il Senegal non perché conducano una vita misera o ai limiti della sopravvivenza ma per fare un’esperienza che li porti a conoscere il mondo “fuori” e aiutare le loro famiglie economicamente. Quello dei due ragazzi, soprattutto all’inizio del film, assomiglia di più al sogno di due teenager che scappano di casa in una fase adolescenziale alquanto delicata: le loro case in legno non cadono a pezzi, le loro madri sono amorevoli e i rapporti sociali appaiono equilibrati: non vi è traccia di sottomissione o diseguaglianza. Questa prima parte usa infatti luci calde, colori contrastanti in cui predominano scene di danze a ritmo di tamburi: la performance risulta alquanto idilliaca, fiabesca e probabilmente il regista ha voluto renderla tale ma nonostante si volesse intraprendere questo filone, il film, continuerebbe comunque a perdere la bussola proprio come il protagonista ha paura di non saper condurre l’imbarcazione fatiscente per attraversare il Mar Mediterraneo. È qui che la storia prende una velocità insolita: la fretta di arrivare del regista è la stessa di Seydou che vuole raggiungere le coste italiane per mettere in salvo le vite a bordo.

In Io Capitano il dubbio non rispecchia quello della vita reale, come sembra non essere presente la disperazione, quella vera, celata dal coraggio del protagonista che segue lo schema classico dell’eroe: non si proclama, infatti, capitano un po’ troppo di fretta? Eppure è quella la parte più fedele alla realtà, quella che non sa se effettivamente ci sia una riva e forse, allo stesso tempo anche la più irreale, poiché la costa (la terra, la salvezza) potrebbe essere una mera visione, un ideale come d’altronde lo è l’arrivo che precede una ulteriore odissea.

Erika Nizzoli

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