I giorni neri del Libano: spirali di violenza nella guerra civile

di Matilde Ferreri

A pochi giorni dall’anniversario dello scoppio della Guerra Civile Libanese, il 13 aprile 1975, abbiamo deciso di raccontarvi alcuni degli eventi più traumatici del conflitto, che segnarono profondamente il Paese dei cedri e contribuirono poi a fomentare eventi esterni di maggior portata. La Guerra Civile Libanese rappresenta infatti una ferita ancora aperta nella società: visibile, sanguinante e ancora causa di odierni scontri e ostilità. 

Innanzitutto, al fine di comprendere meglio gli eventi di cui parleremo in questo articolo, è importante fornire un quadro generale sulle cause che portarono allo scoppio del conflitto e gli schieramenti principali che ne presero parte. 

Il contesto storico: la guerra civile libanese 

La sparatoria del 13 aprile 1975 rappresenta la scintilla che fece scoppiare un fuoco che ardeva già da tempo, fomentato dalle tensioni tra i diversi gruppi religiosi ed etnici presenti nel Paese, tensioni che caratterizzano ancora oggi il Libano odierno. Le ostilità furono causate da diversi fattori. 

Innanzitutto, la questione Israelo – Palestinese, la quale, a partire dal 1948 in poi, portò moltissimi palestinesi  a emigrare nel vicino Libano. I campi profughi infatti cominciarono a pullulare di nuovi arrivati: giovani e anziani speranzosi di poter trovare un rifugio momentaneo in vista di un ritorno.

“(..) nel 1948 eravamo turisti. Mio nonno aveva una borsa piena di soldi, era come se fossimo andati in gita in Libano. Ci portava nei meleti a scegliere i frutti direttamente dalle piante, e, tutte le settimane, andavamo a Beirut, che è stata la prima città che ho visto dopo Acri. Non era un esodo, piuttosto un viaggio, una gita. Aspettavamo che, di lì a qualche settimana, l’esercito arabo sbaragliasse gli invasori per poter tornare a Birwa. (…)  Ma quando mio nonno si rese conto che la nostra permanenza in Libano non era un viaggio né una gita, che la guerra era finita e aveva perso tutto, che gli ebrei mangiavano i frutti dei suoi alberi e, che, in mano gli restava soltanto una tessera alimentare, ha intuito che partire era stato un errore”.1

Come possiamo intuire da questo passo tratto dal libro del grande poeta e scrittore palestinese Mahmoud Darwish, con il passare del tempo, l’idea di poter tornare in Palestina diventò sempre più vana: una speranza lontana come una fiamma debole di una candela ormai erosa dagli anni. Intanto, a causa degli ultimi tragici eventi degli anni sessanta e settanta sempre più palestinesi migrarono sul suolo libanese. Tra il 1948 e il 1975 il totale dei palestinesi presenti in Libano era di centinaia di migliaia. Oggi, il numero dei profughi ammonta a circa mezzo milione di persone, di cui circa il 50% vive nei dodici campi presenti nel Paese2. Di questi dodici, prima della guerra civile, se ne contavano tre in più, rimasti distrutti dagli attacchi e dai massacri avvenuti durante e dopo il conflitto.

Tall al-Za'atr R.C. /Destroyed - Acre - Tall al-Za'atr R.C. /Destroyed -  Palestine Remembered

Come già accennato, la presenza palestinese in Libano portò alla nascita di una sempre maggiore ostilità tra i diversi gruppi presenti nel Paese. I profughi erano spesso soggetti a episodi razzisti, venivano emarginati dalla società e costretti ai lavori più umili e faticosi3. Queste tensioni aumentarono ulteriormente dopo la nascita e lo stabilimento nel Paese di movimenti di resistenza palestinese, come l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) o il Movimento Nazionalista Arabo di George Habash. 

Inoltre, le tensioni tra i gruppi cristiani e la componente musulmana crebbero notevolmente in seguito alla firma del Patto Nazionale del 1943, con cui nacque la contrapposizione tra una visione pan-araba del paese, sostenuta dai gruppi musulmani ed una visione “libanista”, portata avanti dai gruppi cristiani4.

Anche la questione del settarismo religioso fu, ed è tuttora, motivo di tensione nel Paese dei Cedri. Diciotto sono i gruppi religiosi riconosciuti all’interno della società, ma non tutti godono della stessa rappresentanza politica all’interno del governo libanese. 

Con la firma del Patto Nazionale (ancora in vigore oggigiorno), infatti, il potere politico fu ripartito tra le tre maggioranze del Paese: il presidente della repubblica libanese deve essere cristiano maronita, il primo ministro musulmano sunnita e il presidente dell’Assemblea Nazionale musulmano sciita. 

Come ultimo fattore scatenante, vi era la volontà siriana di aumentare la propria influenza politica ed economica in Libano, considerato come parte della “Grande Siria”. 

Durante la guerra civile due erano gli schieramenti principali: il Fronte Libanese e il Movimento Nazionale Libanese

Il primo era composto da gruppi militanti cristiani di estrema destra, come il partito delle Falangi di Gemayel. Il secondo invece, il Movimento Nazionale Libanese era più frammentato, essendo prevalentemente composto da gruppi sunniti, sciiti, armeni e palestinesi. Anche Israele, dal 1982, prese parte al conflitto a fianco delle milizie cristiane. 

Infine, il conflitto può essere diviso in due macro-fasi. La prima (1975-76) venne caratterizzata da uno scontro più netto tra le forze della destra cristiana (Fronte Libanese) e quella della sinistra libanese (Movimento Nazionale Libanese), mentre la seconda (1978-1989) da una maggior frammentazione sul piano degli schieramenti5. Inoltre, è importante ricordare che durante il conflitto, la capitale Beirut venne divisa tra Beirut ovest, prevalentemente musulmana, e Beirut est, a maggioranza cristiana.

Foto di George Azar

Diversi furono i massacri, carneficine, stragi avvenute durante la prima e la seconda fase della guerra civile libanese. Oggi ne ripercorreremo alcuni tra i più importanti.

Inizialmente, fu proprio quel 13 aprile 1975 a dar vita a uno scontro di narrative che esiste ancora oggi nella società moderna libanese. Sulla guerra civile infatti c’è tanta confusione: un conflitto complesso e intricato, su cui nessuno ha risposte certe.

Il 13 aprile a Beirut, in occasione della consacrazione di una chiesa nel quartiere cristiano di ‘Ain al-Rummana, un gruppo di palestinesi armati aprì il fuoco sui presenti, uccidendo quattro persone. Poco dopo un bus con a bordo 27 palestinesi entrò nella strada che separava il quartiere cristiano da quello sciita. Ne conseguì uno scontro armato tra i militanti cristiani e palestinesi, che portò alla morte di tutti i palestinesi presenti sull’autobus. 

La guerra era cominciata.

Da quel momento in poi, l’escalation degli eventi sarà rapida e confusionaria, e le diverse stragi furono compiute in ritorsione agli eventi precedenti. 

Un esempio è quella di Damour del 20 gennaio 1976.

Abitanti di Damour in attesa di evacuare la città. Fotografo sconosciuto

Damour è una cittadina libanese a maggioranza cristiana, situata a venti chilometri a sud dalla capitale Beirut. La strage, compiuta dai combattenti dell’OLP e dai membri di al-Saiqa (Milizia palestinese di stampo ba’thista e controllata dalla Siria), fu la risposta palestinese in ritorsione al massacro di Karantina del 18 gennaio 1976. 

Ma facciamo un passo indietro per ricostruire il contesto storico.

Controllata dall’OLP e abitata principalmente da palestinesi, siriani e curdi, l’allora baraccopoli di Karantina si trova vicino al quartiere cristiano della capitale Beirut. Qui, i militanti cristiani ultra-nazionalisti del partito di Bashir Gemayel invasero il quartiere. 

L’invasione cristiana, mossa dalla sete di vendetta di altri due massacri del 1975 (il Giovedì Nero del 30 maggio 1975 e il Massacro di Beit Mellat del 10 settembre 1975), perpetrati per mano palestinese come rappresaglia della carneficina di ‘Ain al- Rummana, fu devastante. Le milizie cristiane di estrema destra, che avevano circondato la zona di Karantina, irruppero nell’area, torturando, martoriando ed uccidendo un totale di 1500 civili, tra cui musulmani, armeni, curdi e siriani. 

Il massacro di Karantina, 1976. Foto di Francoise Demulder

Le milizie palestinesi risposero alla strage due giorni dopo nella città cristiana di Damour, a venticinque chilometri a sud di Beirut, uccidendo quasi seicento persone. Si era aperta una fase regolata dalla legge del taglione, dove un massacro diventava il pretesto per compierne un altro. 

Qualche mese dopo gli avvenimenti di Damour, il 12 agosto 1976 il campo profughi di Tell az-Za’tar fu devastato e cancellato dalla storia del Paese. Esso era infatti uno dei quindici campi presenti sul suolo libanese, situato nella periferia orientale della capitale Beirut. Ospitava dai 50 ai 60 mila rifugiati palestinesi ed era gestito dall’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente). 

Il massacro succedette a un assedio perpetuato per qualche mese da parte delle forze cristiane, intenzionate a espellere i combattenti dell’OLP dal Paese. Come si può immaginare, l’assedio sfociò nella brutale uccisione dei residenti del campo a giugno 1976. L’esercito siriano prese parte all’attacco a fianco delle Falangi Libanesi e, mentre il primo bombardava usando artiglieria pesante, le seconde lo circondarono e tagliarono l’elettricità e l’acqua.

Molti profughi morirono a causa delle ferite non guarite, malnutrizione, continui bombardamenti e carestia. Alcuni si suicidarono o vennero giustiziati. In totale, il numero di morti ammonta a circa 15006

Dopo ben venticinque anni dalla fine della guerra civile, la convivenza tra i diversi gruppi del Paese rimane molto difficile. Ziad Doueiri, nel suo film “L’insulto” (2017) rappresenta perfettamente l’astio che ancora spesso si fa vivo nella società libanese, spesso mosso da un forte risentimento soffocato negli anni o un dolore che mai è passato, in cui lo scontro tra i due svela ferite ancora aperte.

Erano dappertutto, per strada, nei vicoli, nei cortili e dentro le stanze diroccate, sotto ai calcinacci e sopra i mucchi di spazzatura. Quando arrivammo a cento cadaveri, smettemmo di contare. In ogni vicolo c’erano cadaveri – di donne, ragazzi, bambini, anziani – ammassati in gran numero, languidamente, terribilmente, là dov’erano stati sgozzati o uccisi dai mitra (…)” .7

Il massacro di Sabra e Shatila è la strage avvenuta nei campi profughi di Sabra e Shatila, situati nella periferia ovest di Beirut. Il massacro del 16 -18 ottobre 1982 fu compiuto dalle Falangi Libanesi e dall’esercito israeliano, entrato in Libano nello stesso anno. 

All’inizio dell’estate 1982 cominciarono le trattative tra l’esercito israeliano, gli USA e l’OLP per risolvere la crisi in corso. Quest’ultima scaturì dall’assedio israeliano della capitale Beirut, durante il quale quasi 15.000 combattenti dell’OLP vennero accerchiati. Le forze israeliane e americane desideravano dunque l’uscita dei palestinesi dal Libano, mentre queste non volevano abbandonare il Paese. Le trattative cominciarono con l’aiuto del diplomatico statunitense Philip Habib, inviato dal presidente Reagan.

Successivamente, a circa due mesi dall’inizio dell’assedio, tramite diverse negoziazioni, si riuscì ad arrivare ad un accordo, con cui i palestinesi vennero rassicurati sia dalle Falangi che dal Primo Ministro israeliano Menachem Begin che i campi profughi non sarebbero stati attaccati e che Beirut ovest non sarebbe stata invasa. Allo stesso tempo l’OLP avrebbe dovuto ritirarsi e lasciare il Paese, mentre una forza multinazionale, fortemente voluta dal leader dell’OLP Yasser Arafat, sarebbe arrivata poco dopo per garantire l’ordine durante il ritiro dei combattenti palestinesi. 

Una volta dichiarato concluso il ritiro dell’OLP, a inizio settembre 1982 le forze israeliane avanzarono e invasero i campi profughi palestinesi, violando gli impegni presi. Stessa cosa fecero anche le milizie cristiane delle Falangi, prendendo posizione nel quartiere di Bir Hassan. Intanto, l’allora Ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon, esponente del partito ultra-conservatore del Likud, avversò la presenza di duemila combattenti palestinesi, apparentemente ancora presenti sul suolo libanese.

A pochi giorni dalla presa di posizione israeliana, il 14 settembre un attacco mortale diretto a Bashir Gemayel uccise lui e altri 26 membri del partito Kata’ib nel quartier generale delle Falangi. L’evento scatenò l’invasione di Beirut Ovest da parte delle forze israeliane, giustificata da Begin e Sharon come una contromisura per difendersi dai combattenti dell’OLP.

I militanti di destra entrarono nei campi con il pretesto di cercare i combattenti. Ma dopo circa quaranta ore dal loro arrivo, fino a 3.500 civili8, tra cui anziani, donne e bambini, furono brutalmente torturati e uccisi. I crimini commessi in più di 48 ore furono inimmaginabili, tanto che le urla di dolore sono ancora vive a vent’anni di distanza, nel cuore di chi ha assistito a queste atrocità.

“Ma c’erano donne distese dentro le loro case con le gonne tirate su fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola sgozzata, file di ragazzi fucilati alle spalle dopo essere stati allineati lungo un muro. C’erano neonati – anneriti, perché erano stati trucidati da più di ventiquattr’ore e i loro piccoli corpi erano già in stato di decomposizione – buttati su mucchi di spazzatura accanto a lattine di cibo vuote dell’esercito americano, materiale dell’esercito israeliano e bottiglie vuote di whisky”.

(Robert Fisk, Il martirio di una nazione) Jenkins (Washington Post) e Fisk sul campo; citazione presente in Ogni mattina Jenin, S. Abulhawa 

Il massacro di Sabra e Shatila. Foto di Michel Philippot

A più di quarant’anni dal massacro del 1982, l’orrore sofferto dalla popolazione palestinese resta ancora difficile da sopportare. Oggi la tragedia di Sabra e Shatila viene paragonata al genocidio a cui stiamo tristemente assistendo in Palestina per mano israeliana9, essendo stato uno degli eccidi più cruenti rivolti verso i profughi palestinesi dall’esodo del 1948.

Quante volte partirai?
E per quanto tempo?
Per quale sogno?
Se tornerai un giorno
Sarà per quale esilio,
quale esilio ti riporterà indietro?
(…)
Sabra – dorme. Ma il coltello del fascista si sveglia
Sabra chiama chiunque possa chiamare.
Tutta questa notte è per lei, ma la notte è come sale 
Il fascista le taglia il petto – la notte si accorcia –
Poi comincia a danzare attorno al coltello, leccandolo.
Cantando un’ode per la vittoria dei cedri, 
comincia a toglierle 
silenziosamente… 
la pelle dalle ossa (…)
Sabra non è più un corpo:
Il fascista la cavalca come gli suggerisce l’istinto, e la sua volontà si manifesta, 
per poi rubarle un anello dalla sua pelle (fresca) e dal suo sangue, 
e tornare al suo specchio
Ed essere – Mare
Ed essere – Terra 
Ed essere – Nuvole
Ed essere – Sangue
Ed essere – Notte 
Ed essere – Morte
Ed essere – Sabato
E Lei è – Sabra,
l’incrocio di due strade su un corpo (…)
Sabra – non è nessuno 
Sabra – è l’identità del nostro tempo, per sempre. 

M. DARWISH, Sabra and Shatila. in “Medium”, traduzione libera di Matilde Ferreri, 2011, https://thepalestineproject.medium.com/sabra-and-shatila-4ce9c3d4a7e7

Matilde Ferreri

Fonti

  1.  M. DARWISH, Una trilogia palestinese ↩︎
  2.  A history of Palestinians in Lebanon, https://books.openedition.org/iheid/594?lang=it
    ↩︎
  3.  R. SIKLAWI, The Dynamics of Palestinian Political Endurance in Lebanon, 2010, in “Middle East Journal”, http://www.jstor.com/stable/40926502?seq=1&cid=pdf-reference#references_tab_contents
    ↩︎
  4.  R. DI PERI, Il Libano contemporaneo. Storia, Politica e società, Roma 2017, pag. 64
    ↩︎
  5.  R. DI PERI, ibidem.
    ↩︎
  6.  The Massacre of Tal al- Zaatar: A tragedy that still haunts the Palestinians, 2023, https://daysofpalestine.ps/the-massacre-of-tal-al-zaatar-a-tragedy-that-still-haunts-the-palestinians/
    ↩︎
  7.  Il Martirio di una Nazione, R. Fisk
    ↩︎
  8.  Al Jazeera English, What was the Sabra and Shatila massacre?, 2023, https://www.youtube.com/watch?v=10nFMcZrToc
    ↩︎
  9.  Al Jazeera, “Israel’s war in Gaza revives Sabra and Shatila massacre memories in Lebanon”, 2023
    https://www.aljazeera.com/amp/features/2023/10/24/israels-war-in-gaza-revives-sabra-and-shatila-massacre-memories-in-lebanon ↩︎

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