Il Memorandum Italia-Tunisia: le lezioni mai imparate dell’Unione Europea

Negli ultimi mesi si è sentito sempre più parlare di Tunisia. Un discorso pubblico che è culminato con la firma, a luglio, del Memorandum di Intesa fra Italia e Tunisia. Un momento che, a molti, ha ricordato la firma di un Memorandum simile nel gennaio 2017, ma non a Tunisi, bensì a Tripoli.

Tunisi è entrata a gamba tesa nel discorso sull’immigrazione europea, sia per il consistente aumento di partenze di cittadini tunisini che, più degli anni scorsi, tentano la traversata da Sfax a Lampedusa, ma anche per il crescente numero di migranti subsahariani che, dopo aver vissuto e lavorato nel paese nordafricano, si imbarcano e provano a fuggire verso l’Europa.

Numeri da capogiro che non hanno precedenti, con un aumento del 560% di arrivi via mare dalla Tunisia all’Italia rispetto allo scorso anno: numeri che rendono la Tunisia il primo paese di partenza per le imbarcazioni in arrivo in Europa.

Ma come si è arrivati a questa situazione? Cosa è cambiato in Tunisia, e come ha fatto a cambiare così repentinamente? Per rispondere a queste domande bisogna andare indietro di diversi anni nella storia tunisina.


Un bilancio della Rivoluzione dei Gelsomini

Non si può parlare della Tunisi odierna senza dare uno sguardo al dicembre 2010.

A dare origine alle Primavere Arabe, ovvero alla concatenazione di rivolte e proteste che sconquassarono il mondo arabo-musulmano all’inizio del decennio scorso, fu il suicidio di Mohamed Bouazizi. Bouazizi era un commerciante tunisino che, vedendosi negare dallo stato la sua licenza di venditore ambulante, tra l’altro in un contesto di crescente crisi economica e difficoltà di trovare impiego, si rivolse alle autorità del governatorato dove risiedeva. Quando le autorità gli negarono un appuntamento, Bouazizi si diede fuoco proprio davanti alle porte dell’edificio da cui si aspettava di ricevere assistenza e protezione, ma da cui non aveva ottenuto nulla.

Era il 17 dicembre 2010 e il mondo arabo si preparava a vivere quelle che vennero immediatamente battezzate come Primavere Arabe, ma che un bilancio attento di anni dopo avrebbe rinominato Inverno Arabo.

Un altare che dichiara la Tunisia in lutto per la morte di Bouazizi, ritratto nella foto (fonte: Barbadillo)

Il gesto di Bouazizi diede il la alla popolazione tunisina, già stremata dalla mancanza di lavoro, dalla scarsità di beni di prima necessità, dalla crescente inflazione e da un generale malessere dovuto alle dure condizioni di vita.

Al governo c’era il dittatore Zine El Abidine Ben Ali, salito al potere nel 1987 con un colpo di stato e che da più di vent’anni manteneva saldo il controllo dello stato. Durante la sua dittatura, i tunisini videro le proprie libertà civili e di espressione erodersi, giorno dopo giorno, a favore del sempre maggior controllo da parte della polizia e dell’autorità statale.

Nelle settimane successive al suicidio di Bouazizi, i tunisini destituirono Ben Ali, invocando maggiori diritti civili e la transizione verso la democrazia, e ispirando molti paesi a fare altrettanto. Seguirono l’esempio tunisino Egitto, Libia, Yemen, Siria, e in misura minore Bahrein, Giordania, Marocco, Algeria e Arabia Saudita. Di molti di questi paesi vediamo, ancora oggi, le conseguenze tragiche di queste rivolte: dalla guerra siriana all’instabilità cronica della Libia, passando per la continua repressione dei diritti in Egitto e la drammatica guerra yemenita.

La primavera araba si è trasformata in un gelido inverno, di cui potete trovare un nostro bilancio in questo episodio del nostro podcast.

Proteste in Tunisia nel contesto delle Primavere Arabe (fonte: ISPI)

Il primo decennio democratico

La Tunisia è stata a lungo considerata come l’unico esempio virtuoso all’indomani delle rivolte. La rivoluzione tunisina, chiamata anche Rivoluzione dei Gelsomini, un fiore che era diventato simbolo delle proteste e che la popolazione portava con sé quando andava a manifestare, aveva portato all’instaurazione di un governo democraticamente eletto, una costituzione nuova ed elezioni popolari. Le riforme politiche ed economiche non avevano tardato ad arrivare, ma gli effetti non furono quelli sperati: il paese continuava a lottare con disoccupazione, povertà e inflazione.

Infatti, il decennio 2011-2021 ha visto la Tunisia democratica lottare con gli stessi demoni dell’epoca dittatoriale, vedendo sfumare sempre più velocemente la speranza di risolvere i propri problemi sociali. L’astensionismo alle elezioni è diventato sempre più alto e il paese ha visto sfumare le proprie speranze, riposte in una nuova classe dirigente di cui si faceva carico il partito islamista Ennahda. Questo partito era stato duramente represso in epoca dittatoriale, ma poi si era incaricato di portare avanti la transizione democratica ed era stato al centro della Rivoluzione.


L’elezione di Kais Saied

Nel 2019, il professore universitario Kais Saied viene eletto come candidato indipendente alla presidenza del paese.

La sua parlata forbita e la sua campagna elettorale modesta danno speranza alla classe di giovani intellettuali e laureati della Tunisia democratica, e viene eletto con la stragrande maggioranza dei voti. Il suo obiettivo principale è sconfiggere la corruzione dilagante e la sua strategia è rompere con il passato della classe dirigente, che spesso andava a braccetto con il partito Ennahda e una ristretta elite.

Tuttavia, il suo è il settimo governo in dieci anni di Tunisia democratica, per una media di quasi uno all’anno.

Kais Saied (fonte: Repubblica)

La pandemia

Se Saied era riuscito a tenere in piedi il paese nei primi mesi di COVID, lo stesso non può dirsi del 2021. Per la Tunisia, la cui economia dipendeva in gran parte dal turismo, la pandemia ha significato anche gravi perdite economiche e questo ha avuto gravi effetti sulla popolazione civile.

A gennaio 2021 scoppiano violente proteste in risposta all’instaurazione di un duro lockdown con coprifuoco notturno. A guidare queste proteste sono i giovani tunisini, cresciuti con il mito della Rivoluzione dei Gelsomini, ed esasperati da un anno di confinamenti e condizioni socio-economiche sempre più devastanti.

La repressione del governo si fa sentire con numerosi arresti e l’uso della violenza contro i manifestanti.

La svolta autoritaria e le frequenti chiamate alle urne

A luglio 2021, Saied compie quello che viene definito un vero e proprio colpo di stato. Scioglie il parlamento, accentrando nelle proprie mani il potere dello stato, e lasciando alle altre istituzioni democratiche poco o nessun potere.

Parte della popolazione tunisina lo sostiene in questa sua presa di potere. Questa fetta di cittadinanza ha fiducia nella capacità di Saied di risollevare un paese devastato dalle conseguenze economiche della pandemia e dà la colpa di questo tracollo socio-economico alle precedenti classi dirigenti.

Saied continua la sua svolta autoritaria con una riforma costituzionale, che va a sigillare la sua presa di potere sempre più assoluta. Tale riforma prevede il controllo assoluto delle forze armate, del governo e della magistratura da parte del Presidente, che può sciogliere il parlamento e le cui proposte di legge vanno esaminate in via prioritaria rispetto alle altre. L’affluenza del referendum utile a tale riforma, condotto nel luglio 2022, registra un tasso di astensionismo del 73%, ma il 92% di chi ha votato ha approvato la riforma.

La svolta autoritaria, tuttavia, non è ancora conclusa, così come la crisi tunisina.

La popolazione inizia a stancarsi e a perdere fiducia nella figura di Saied: la corruzione non è sparita, così come i problemi socio-economici. La sfiducia si traduce in una scarsissima partecipazione alle elezioni parlamentari del dicembre 2022, alle quali ha votato l’8% degli aventi diritto.

Nel frattempo il debito pubblico del paese lievita a dismisura e, nonostante una parziale ripresa dei flussi turistici, la mancanza di liquidità nelle casse dello stato è un fattore determinante della crisi.

La svolta razzista

A febbraio 2023 il consenso della cittadinanza tunisina verso Saied è ai minimi.

Il presidente fa dichiarazioni tanto decisive quanto razziste:

“L’immigrazione clandestina fa parte di un complotto per modificare la demografia della Tunisia affinché venga considerata come un paese solo africano, e non più anche arabo e musulmano”.

Saied dà così inizio a una strategia che, almeno apparentemente, vuole addossare le colpe della crisi e del malcontento tunisino alla presenza straniera. Alcuni sondaggi dimostrano che i tunisini percepiscono la presenza immigrata come molto maggiore rispetto alla realtà. Se sul territorio sono presenti poche decine di migliaia di stranieri, la loro presenza viene ingigantita sui social fino a raggiungere i due milioni – tutte notizie false.

Proteste a favore dei migranti e del rispetto dei diritti umani, frequenti risposte alle ondate di razzismo da parte della società civile tunisina (fonte: il manifesto)

Quello che si verifica in Tunisia da sei mesi a questa parte è un esempio di come l’immigrazione può essere usata come caprio espiatorio, e di come le colpe di anni di diverse classi dirigenti possano cadere su migliaia di migranti.

Da febbraio le aggressioni a danni di immigrati in Tunisia sono aumentate, soprattutto a scapito delle persone subsahariane, da anni presenti nel paese nordafricano.

La situazione degenera con le prove di diverse espulsioni a luglio 2023: centinaia di persone trasportate e abbandonate al confine con la Libia, fra loro anche bambini e donne incinte, in vere e propria espulsione di massa che sono in toto contrarie al diritto internazionale. Sui media e sui social è girata molto la sconvolgente foto di una donna e di sua figlia, poi riconosciute dal proprio rispettivamente marito e padre, decedute nel deserto al confine fra Libia e Tunisia.

Migranti abbandonati al confine fra Libia e Tunisia nel luglio 2023 (fonte: il manifesto)

La rotta tunisina

Il quadro delineato fino ad ora restituisce un’immagine di perpetua crisi dello stato tunisino: le casse dello stato sono vuote, mancano i beni di prima necessità, l’inflazione cresce vertiginosamente. L’odio nei confronti dei migranti neri è in costante crescita, mentre il governo non sa offrire nessuna soluzione al malessere tunisino.

La rotta tunisina, che collega Sfax e gli altri porti all’isola italiana di Lampedusa – più vicina al paese nordafricano che all’Italia continentale – si riempie di imbarcazioni cariche di gente in fuga. Nel 2023 la Tunisia occupa il primo posto come paese di partenza dei migranti, superando la Libia. Se in tutto il 2022 circa 5.000 persone erano arrivate via mare dalla Tunisia, nel primo semestre del 2023 questo numero ha superato le 33.000.

La storia del rapper Junior Hassen, nome d’arte di Hassen Sassi, artista tunisino di successo nel panorama hip-hop, ha suscitato molto scalpore. Hassen è arrivato in Italia su un’imbarcazione proprio a inizio agosto di quest’anno, partendo dalla sua Tunisia. La scelta dell’artista è emblematica per intere generazioni ed è stata duramente giudicata da chi ritiene che il rapper, con la sua influenza pubblica, potrebbe aver spinto altri ragazzi a partire come lui – con tutti i rischi del caso.

Mappa della Tunisia e delle sue principali città (fonte: Internazionale)

Un’altra differenza sostanziale rispetto al passato è che, se prima a usufruire di questa rotta erano principalmente i cittadini tunisini, oggi anche cittadini di molti paesi subsahariani partono dalla Tunisia su imbarcazioni pericolanti.

Queste partenze hanno spostato le energie della flotta civile di ricerca e soccorso dalla Libia alla Tunisia, con il supporto e il coordinamento delle autorità italiane. I casi di naufragio e di bisogno vengono registrati costantemente, con aumenti allarmanti rispetto agli anni passati. Eclatante è l’esempio dei 15 soccorsi eseguiti in meno di due giorni dalla ONG SOS MEDITERRANEE, con la nave Ocean Viking, ai primi di luglio: le autorità italiane hanno chiesto aiuto e gestito insieme alla ONG il soccorso di più di 600 persone, partite dalle coste di Sfax.

Al contempo si moltiplicano le notizie di naufragi al largo delle coste tunisine, che vedono morire e disperdersi decine di migranti.

Il podcast “Perché scappiamo – Voci dei ragazzi tunisini“, registrato da Sara Giudice per Chora Media proprio in Tunisia, restituisce un quadro completo e sfaccettato delle vicende tunisine e propone uno sguardo sulla crisi economica e sociale dando voce ai cittadini tunisini.


Il Memorandum d’intesa Italia-Tunisia

Le visite della premier Meloni in Tunisia si sono moltiplicate negli ultimi mesi. Da entrambe le parti c’erano interessi importanti.

Saied ha fra le mani un paese in grave tracollo economico, che necessita di sostegno finanziario dall’estero. Tuttavia, si rifiuta di accettare il prestito del Fondo Monetario Internazionale poiché non vuole mettere in atto le riforme richieste per riceverlo.

L’Unione Europea, nel suo più ampio progetto di esternalizzazione delle frontiere – che affonda le radici nei rapporti Italia-Libia, Grecia-Turchia e Spagna-Marocco – ha l’interesse di mantenere un controllo sui flussi che partono da Tunisi e Sfax. Il discorso vale ancora maggiormente per l’Italia, guidata da un governo di estrema destra che ha fatto della migrazione, del controllo delle frontiere e dello stop agli sbarchi “illegali” la maggior arma di propaganda prima e dopo la campagna elettorale di settembre 2022.

Gli interessi comuni fra Tunisi e l’Unione Europea si sono concretizzati in un Memorandum di Intesa – la stessa formula scelta dal governo Gentiloni del 2017 con la Libia – siglato a Tunisi il 16 luglio scorso alla presenza di Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea, e la benedizione di Rutte, primo ministro olandese.

Il momento della firma del Memorandum (fonte: Il Mondo)

Cosa preveda esattamente l’accordo rimane ancora abbastanza nebuloso, anche se i media sono riusciti a ricostruire i termini essenziali: 100 milioni di euro sbloccati per il controllo delle frontiere tunisine, con la promessa di ulteriori 900 per andare a soccorrere un’economia al collasso. Diverse motovedette nuove regalate e altre restaurate, senza tuttavia l’istituzione di una zona di ricerca e soccorso tunisina – a differenza della Libia, che nel 2018 si è vista assegnare una sua zona di competenza per il soccorso in mare, cosa che spesso si traduce semplicemente in intercettazioni massicce di persone che vengono riportate in Libia, e non in operazione di reale soccorso.

L’accordo si pone l’obiettivo di risollevare e rafforzare l’economia tunisina, puntando sulla partnership energetica e sugli investimenti in materia di agricoltura sostenibile, affrontando anche il tema migrazione.

La Tunisia è stata categorica solo su un tema: non avrebbe mai costruito centri per la gestione di profughi e migranti, ma si sarebbe incaricata solo della gestione delle proprie frontiere e dei propri cittadini, al contrario della Libia che con i fondi europei gestisce i centri per migranti – ormai tramutati in vere e proprie prigioni e campi di tortura per persone provenienti da tutta l’Africa.

Secondo Amnesty International, la firma di tale accordo porterà a maggiori abusi da parte delle autorità, “espandendo le già fallite policies europee” in tema di migrazioni, oltre a dimostrare la crescente accettazione dell’UE di comportamenti repressivi e dittatoriali pur di avere un controllo sulle proprio frontiere. Considerando gli episodi di violenza perpretrati dalle autorità tunisine, la firma del Memorandum

dimostra che nessuna lezione è stata appresa dai precedenti accordi del genere. Questo rende l’Unione Europea complice delle sofferenze che ne risulteranno inevitabilmente”.

Saied, che di lavoro faceva il professore di diritto, sembra aver dimenticato il 2018, quando la Tunisia fu il primo paese della regione MENA a promulgare una legge contro la discriminazione razziale. Il presidente ha saputo sfruttare la crescente ostilità europea nei confronti dei migranti, perpetuata da governi sempre più a destra, e la sua posizione assolutamente strategica di paese mediterraneo e alle porte della fortezza europea.

Saied ha intravisto una potenziale risoluzione della crisi economica negli ingenti fondi europei, le cui condizioni sono molto meno rigide e stringenti di quelle del Fondo Monetario Internazionale. Impugnando saldamente il coltello dalla parte del manico, Saied non si è fatto scrupoli ad aizzare l’odio delle masse tunisine contro la popolazione nera, una minoranza a cui non si possono certo attribuire le colpe di un tracollo economico che affonda le proprie radici in decenni di malgoverno.

E, così come in Europa, la strategia del capro espiatorio venuto da fuori è riuscita benissimo: da un lato Saied può parzialmente ripulirsi delle colpe proprie e di chi l’ha preceduto, costruendo un immaginario in cui l’immigrazione è stata dannosa per la Tunisia, dall’altro ha attirato le attenzioni dell’Unione Europea, che ha immediatamente sentito la necessità di interrompere i flussi “all’origine”.

Nonostante la propaganda anti-immigrazione e anti-sbarchi, il governo Meloni sta assistendo a un numero di arrivi via mare in costante aumento. Da gennaio ad oggi sono arrivate in Italia via mare più di 105.000 persone, un dato che fa impressione se si pensa che in tutto il 2022 il numero di arrivi fu lo stesso. Anche le morti registrate fra chi tenta di attraversare il Mediterraneo sono in costante aumento: se in tutto il 2022 persero la vita circa 1.400 persone, da gennaio ad oggi si registrano più di 2.000 decessi e sparizioni. Non una bella immagine per il governo che annunciava il “blocco navale“.

La Tunisia, a lungo decantata come esempio virtuoso dopo la fine delle Primavere Arabe, intravede un nuovo periodo di oscurità e forte accentramento del potere. Dieci anni di democrazia traballante non hanno risolto nessuno dei problemi sociali per cui i tunisini e le tunisine scesero in piazza nel 2011, ma ora un ingente quantitativo di denaro verrà immesso nelle casse statali da una preoccupata e frettolosa Unione Europea, su cui lo spauracchio della migrazione ha sortito l’effetto sperato da Saied.

Rimane da chiedersi quali saranno le conseguenze di questa forte iniezione di liquidità, e come si configurerà lo stato tunisino dopo la presa di potere autoritaria e razzista di Saied.

Avana Amadei


Fonti

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