Il movimento BDS palestinese: esempio di resistenza civile e non violenta

In questi mesi, la bandiera del movimento BDS sventola nei cortei organizzati in tutto il mondo a sostegno della causa palestinese e per denunciare il genocidio perpetrato dall’esercito israeliano a Gaza. In un momento in cui la politica internazionale si dimostra indifferente e non efficacemente attiva di fronte alle sofferenze del popolo palestinese, sentiamo ancora di più il bisogno di parlarvi della resistenza civile messa in atto da questo movimento, la quale ebbe inizio ben prima del 7 ottobre 2023. Il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) nasce ufficialmente nel 2005 a seguito di una chiamata lanciata da numerosi attivisti palestinesi, per chiedere alla società civile internazionale di mettere in atto azioni di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni come forma di pressione non violenta sullo stato israeliano.

fonte: Tribune

Come possiamo leggere dal sito ufficiale del movimento BDS, più di 170 sindacati palestinesi, organizzazioni femminili, comitati di resistenza popolare, associazioni di vario tipo hanno appoggiato questa chiamata:

[…] International civil society organizations and people of conscience all over the world to impose broad boycotts and implement divestment initiatives against Israel similar to those applied to South Africa in the apartheid era. We appeal to you to pressure your respective states to impose embargoes and sanctions against Israel […]

Sentenza dell’ICJ come pietra miliare del movimento

Che la chiamata sia stata pubblicata proprio in questo anno non è un caso. Nel 2004, esattamente un anno prima, la corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite (ICJ) emise una sentenza di grande rilevanza storica e politica, in cui condannò la costruzione del muro, identificandolo come illegale secondo il diritto internazionale. Questa sentenza sollecitò inoltre gli stati contraenti della convenzione di Ginevra a garantire, attraverso pressioni internazionali, il rispetto da parte di Israele del diritto umanitario.

A partire dalla primavera del 2002, due anni dopo lo scoppio della seconda intifada, Israele cominciò a costruire una barriera di separazione con la Cisgiordania, edificata quasi interamente sui territori palestinesi. Il muro consta di recinzioni, strade di pattugliamento, filo spianato, muri di cemento che ne circondano il perimetro. L’esistenza di questo muro crea numerosi ostacoli nella vita quotidiana delle persone. I residenti palestinesi sono costretti ad attraversare quotidianamente numerosi check point, che minacciano costantemente il diritto fondamentale alla libertà di movimento, anche all’interno dei propri confini nazionali. Gli effetti del muro non si limitano a questo. Esso rappresenta un ostacolo anche per l’accesso a cure mediche specializzate, al lavoro, alla tutela della proprietà etc..

Inoltre, nella sentenza, la Corte osservò che il tracciato del muro include circa l’80% delle colonie illegali installate da Israele nei territori occupati. Dunque, il muro realizza un “annessione” di fatto di questi territori andando a minare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quanto descritto finora, risulta chiaramente incompatibile con numerose obbligazioni internazionali, sia in tema di tutela dei diritti umani che in virtù delle convenzioni internazionali ratificate da Israele, tra cui la IV Convenzione di Ginevra.

Paradossalmente, in una sentenza emessa nel Giugno 2004, è stata la stessa Corte suprema israeliana a sottolineare la necessità da parte di Israele di riconoscere gli abusi umani ed economici subiti dalla popolazione palestinese a causa della costruzione del muro. Tuttavia, questa sentenza non denuncia l’illegalità giuridica del muro ma solo le sue conseguenze umanitarie.

Le parole della corte internazionale di giustizia, anche se non vincolanti nella pratica, non devono essere sottovalutate. Esse rappresentarono un’importante opportunità politica per il movimento BDS, che trovò nella decisione della Corte un sostegno formale ed uno strumento utile a supportare le sue azioni in opposizione alla politica israeliana, già in corso da qualche anno prima della chiamata ufficiale nel 2005.

In poche parole, se anche il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite giudica come illegale la costruzione del muro, allora le azioni del BDS sono del tutto legittime.

Che obiettivi ha il movimento?

Come abbiamo precedentemente illustrato, la chiamata invita la società civile ad intraprendere azioni di boicottaggio ed esercitare pressione sui rispettivi governi per sanzionare Israele fino a quando non rispetterà il diritto internazionale.  In particolare, come possiamo leggere nel sito ufficiale del movimento, si richiede che queste azioni non violente di pressione vengano portate avanti fino a quanto Israele non rispetterà tre richieste fondamentali:

  1. La fine dell’occupazione e della colonizzazione delle terre palestinesi e lo smantellamento del Muro (di cui parlavamo sopra)
  • Riconoscimento dei diritti fondamentali dei cittadini arabo-palestinesi che posseggono passaporto israeliano
  • Rispetto, protezione e promozione dei diritti dei rifugiati palestinesi, garantendo il diritto di ritorno nelle loro case e proprietà come stabilito dalla risoluzione ONU 194, mai rispettata

Gli strumenti di pressione che vengono utilizzati dal movimento BDS non sono nuovi ma già utilizzati in altre situazioni come per esempio durante l’apartheid sudafricano, che viene infatti preso come punto di riferimento. Tra le azioni utilizzate dal movimento abbiamo:

  1. Il boicottaggio delle attività commerciali israeliane, accademiche, artistiche e delle aziende che si trovano coinvolte nel sistema israeliano
  2. Il disinvestimento dalle aziende israeliane e da quelle che ne sono complici o che ne traggono profitti
  3. La richiesta di sanzioni nei confronti di Israele date le sue violazioni del diritto internazionale

Immaginiamo che in particolare dopo il 7 ottobre abbiate sentito parlare di numerose campagne di boicottaggio di prodotti o aziende considerate come complici del genocidio perpetrato a Gaza. Ecco, molte di queste sono state organizzate o comunque coordinate a livello mondiale dal movimento BDS.

A tal proposito, il BDS, nonostante abbia ormai oltrepassato i confini nazionali, diventando un movimento globale, rimane un’iniziativa a guida palestinese. Esiste infatti un centro di Centro di coordinamento unitario chiamato Comitato nazionale palestinese, con sede in Cisgiordania. Esso è incaricato di dirigere e sostenere questo movimento a livello globale. Nel 2007, due anni dopo il lancio della chiamata ufficiale, ci si rese conto della necessità di coordinare in modo più efficace le azioni mondiali. Per questo, nello stesso anno, si tenne a Ramallah la prima conferenza BDS che portò proprio alla nascita di questo organo di coordinamento.

fonte: https://bdsmovement.net/bnc

Importanza del richiamo all’apartheid sudafricano

[…] to impose broad boycotts and implement divestment initiatives against Israel similar to those applied to South Africa in the apartheid era […]

I movimenti sociali spesso incorporano simboli internazionali per attirare l’attenzione e il sostegno della società civile globale verso le loro cause nazionali. Questa strategia mira ad amplificare la solidarietà internazionale, perché le persone, riconoscendo quei simboli, si sentono più coinvolte ed attratte anche se non li riguarda in prima persona. Nel caso del movimento BDS palestinese, il riferimento all’apartheid sudafricano non è casuale, ma è intenzionale e strategico. I palestinesi hanno utilizzato l’apartheid sudafricano come modello e punto di riferimento, poiché la loro situazione presentava delle analogie significative e le campagne BDS avevano avuto successo in quel contesto. Questo ha conferito più legittimità alle campagne BDS come strumento efficace nella lotta contro la forza occupante (gli insediamenti sono stati definiti illegali nella risoluzione 2334 del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite). Pertanto, durante gli appelli ufficiali lanciati sia dai palestinesi che da altri attori internazionali, il movimento sudafricano è stato citato come paragone. Era la prova storica che le campagne BDS possono avere un impatto significativo contro l’oppressione e l’occupazione.

Tuttavia, come vedremo in questo ultimo paragrafo gli attivisti hanno preso come modello l’Apartheid sudafricano non tenendo in conto di importanti caratteristiche che differenziavano i due contesti. E questo è anche la causa dell’insuccesso del movimento, per lo meno nel raggiungere gli obiettivi prefissati.

Perché per adesso nessuno degli obiettivi del BDS è stato raggiunto?

Perché in Sudafrica le strategie del movimento BDS ebbero successo mentre in Palestina no? Se leggiamo gli obiettivi del movimento possiamo facilmente constatare che nessuno è stato raggiunto: il muro persiste, i palestinesi con passaporto israeliano vengono costantemente discriminati e il diritto al ritorno non è mai stato concesso, dato che i campi profughi persistono.

Il caso del BDS palestinese ci dimostra che un movimento sociale per avere successo non necessita solo di assumere un carattere transnazionale convincendo il maggior numero di persone possibile. Lee Jones, attraverso una comparazione con il movimento BDS sudafricano, ci mostra quelle che sono le mancanze e le carenze sia all’interno del movimento stesso, sia quelle date dal contesto in cui si è creato.

Tra queste abbiamo: l’assenza di unità politica, la mancanza di una strategia unitaria e l’incomprensione tra gli attivisti su cosa sia un risultato oggettivamente positivo.

Il primo problema è l’assenza di un’autorità palestinese unificata con la conseguente mancanza di una lotta civile organizzata. Gli accordi di Oslo del 1993 hanno portato alla creazione dell’Autorità nazionale palestinese (ANP), che è un’autorità fantoccio, in parte controllata da Israele. L’ANP ha creato divisioni perché non rappresentava tutti i palestinesi, ma piuttosto una piccola parte. Attraverso la repressione e la corruzione, ha distrutto i movimenti di resistenza palestinese, portando all’impossibilità di creare una forza unitaria di resistenza. Tuttavia, il modello sudafricano ci mostra che il movimento BDS ha bisogno del sostegno della lotta di civile organizzata per ottenere successo, e le campagne BDS dovrebbero essere utilizzate solo come uno tra i tanti strumenti da utilizzare per minare il sistema di occupazione coloniale. Il movimento BDS è stato utilizzato di fatto come ultima ruota del carro, come ultima chance quando ormai quasi tutto il resto aveva fallito.

In secondo luogo, non essendoci una leadership politica forte, non c’era nemmeno una strategia e degli obiettivi politici unificati. Nel sistema sudafricano, le campagne BDS sono state utilizzate nell’ambito di una strategia specifica. Miravano a indebolire economicamente il sistema dell’apartheid, già colpito da diversi scioperi dei lavoratori. Mentre nel movimento BDS palestinese c’erano molti obiettivi diversi, nessun programma unificato e chiaro e soprattutto l’obiettivo era quello di ricreare in parte la lotta di massa che non esisteva a causa della frammentazione dell’azienda.

Infine, la mancanza di una strategia comune ha portato a un fraintendimento di quello che sarebbe dovuto essere il vero successo. Numerosi attivisti hanno misurato i loro successi solo in base alla quantità di tentativi di boicottaggio, che non erano però rilevanti per porre fine all’occupazione. Hanno usato il movimento BDS sudafricano come modello, senza comprendere che i due contesti erano molto diversi

Se non ha avuto successo allora non è un movimento valido?

No, il BDS è stato in grado di coinvolgere e attrarre un numero molto significativo di persone, che attraverso le sue campagne di sensibilizzazione si sono avvicinate alla questione palestinese. Numerose testimonianze confermano il successo dei boicottaggi e il movimento ha sicuramente contribuito a smuovere l’opinione pubblica e rappresentare una minaccia per Israele, soprattutto attraverso le numerose campagne di diffamazione contro le aziende che investono nel paese. Un esempio recente di successo è stato nel 2023, quando l’Allied Universal, ovvero la più grande società di sicurezza privata al mondo, ha deciso di vendere tutte le sue proprietà in Israele. Questo è avvenuto dopo anni di pressione esercitato dal movimento ai danni della società.

Il successo si misura in base alle prospettive. È chiaro che dal punto di vista dei tre obiettivi centrali il movimento sta fallendo. Tuttavia, pensiamo debba essere considerato come un esempio valido ed efficace di resistenza civile e non violenta portata avanti dalla società civile palestinese. Uno sforzo per non rimanere inermi di fronte alle molteplici violazioni del diritto internazionale compiute da Israele ai danni del popolo palestinese.

Giorgia Facchini

Fonti

  • Jones, L. (2018). Sanctioning Apartheid: Comparing the South African and Palestinian campaigns for boycotts, disinvestment, and sanctions. In Boycotts Past and Present: From the American Revolution to the Campaign to Boycott Israel (pp. 197-217). Cham: Springer International Publishing.
  • Morrison, S. (2015). The emergence of the boycott, divestment, and sanctions movement. Contentious politics in the Middle East: Popular resistance and marginalized activism beyond the Arab uprisings, 229-255.Tarrow, S. (2005). The new transnational activism. Cambridge university press.
  • Della Porta, D., & Tarrow, S. (2005). Transnational processes and social activism: An introduction. Transnational protest and global activism,
  • Claudia Baumgart-Ochse (2017) Claiming Justice for Israel/Palestine: The Boycott, Divestment, Sanctions (BDS) Campaign and Christian Organizations, Globalizations, 14:7, 1172-1187, DOI: 10.1080/14747731.2017.1310463

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