HOLY QUARTER: petrolio, passato, presente e futuro nell’arte di Monira Al Qadiri
A maggio abbiamo avuto l’opportunità di visitare l’esposizione Holy Quarter, dell’artista kuwaitiana Monira al Qadiri, presso il museo Guggenheim di Bilbao, in Spagna. L’esposizione è durata dal 10 marzo al 12 giugno, ma se l’artista risveglia il vostro interesse sappiate che la sua The Milk of Dreams è attualmente esposta alla Biennale di Venezia fino al 27 novembre.
Monira Al Qadiri nasce in Senegal, nella capitale Dakar, nel 1983. È figlia di un diplomatico e di un’artista, entrambi kuwaitiani, paese nel quale la famiglia si trasferisce quando Monira ha 2 anni e la sorella maggiore, Fatima, 4. La giovane Monira dimostra uno spiccato interesse per il mondo degli anime e del Giappone, e decide di trasferirsi proprio a Tokyo quando ha 16 anni. Per la successiva decade, Al Qadiri vivrà nel paese del sol levante, studiando arte e grafica. Ora è residente a Berlino e ci sono suoi lavori sparsi nelle collezioni permanenti di tutto il mondo, da New York a Eindhoven.
Monira si autodefinisce “un personaggio dei cartoni animati” in un’intervista, mentre parla dell’importanza dei cartoni animati giapponesi nella sua crescita. In un’altra intervista racconta di come gli anime, che preferisce guardare doppiati in arabo, siano stati un’ancora di salvezza durante la sua infanzia, specialmente nel periodo della guerra in Kuwait.
Figlia di una pittrice che non volle insegnarle a dipingere, perché contraria all’idea che l’arte si potesse insegnare, Monira esplora l’arte a partire dalle arti figurative fino alle tecniche più grafiche e visive, prediligendo l’animazione.
La sua tesi di dottorato, discussa nel 2010, è intitolata “The Aesthetics of Sadness in the Middle East”, e anticipa molti dei temi che l’artista deciderà di trattare durante la sua carriera. L’importanza del petrolio, la formazione e la conservazione dell’identità culturale mediorientale, la specificità dei paesi del Golfo, la definizione di genere e il ruolo della donna, la colonizzazione, la storia, lo sfruttamento delle risorse naturali e il rapporto uomo/terra: tutte macroaree di discussione ampiamente trattate da Monira, che le ribadisce nell’opera Holy Quarter.
Entrando nella sala dove Holy Quarter è esposto, si ha la sensazione di essere finiti nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
Cosa sono quelle strane statue poggiate sul pavimento?
Che cosa sta dicendo questa voce assurda?
Cosa sono le immagini che si susseguono sullo schermo?
La mente si affolla di queste domande, mentre la luce proiettata dal film sullo schermo si riflette su decine di gigantesche perle di vetro nero, che giacciono inermi in mezzo alla piccola sala.
L’idea di far sentire lo spettatore completamente perso era uno degli obiettivi del suo lavoro, dichiara Monira. Fra le sue intenzioni c’era quella di disorientare gli spettatori e portarli a chiedersi dove si trovassero e cosa fosse ciò a cui stavano assistendo.
Holy Quarter è appunto questo, un video di circa 20 minuti in cui si susseguono immagini del deserto dell’Oman, accompagnate da una musica – composta da Fatima, sorella di Monira – e dalla narrazione di una voce maschile e profonda, che parla a nome di un’entità divina e plurale che si autodefinisce Wabar.
Ma chi è Wabar?
Perché si trovano nel deserto dell’Oman?
E cosa vuole raccontarci Al Qadiri con questa opera?
La risposta a queste domande, ci dice l’autrice, è da ricercare nei diari di un esploratore inglese del secolo scorso, Harry St. John Philby. Questi partì in esplorazione nel deserto arabico, alla ricerca della mitica città perduta di Ubar, e invece si ritrovò davanti un cratere che scambiò per vulcano. All’interno del cratere, decine di perle nere, e la profonda delusione dell’esploratore inglese al comprendere che non esisteva nessuna città perduta.
Ciò che Philby aveva trovato era però di valore inestimabile. Si comprese più avanti che si trattava non di un cratere vulcanico, bensì del cratere lasciato da un meteorite. Le perle nere, chiamate dalla popolazione locale Wabar, altro non erano che i resti del meteorite.
Questa è la storia che ci viene narrata dal filmato, ma fra le righe del messaggio trasmesso dalla profonda voce maschile di Wabar si celano infiniti significati che l’artista desidera narrare agli spettatori.
Innanzitutto il tema del petrolio, e il ruolo significativo che questo ha sempre giocato nella geopolitica mediorientale – specialmente nel Golfo – gioca un ruolo centrale. Come dichiarato da Al Qadiri, le perle di vetro nero posate sul pavimento potrebbero essere ugualmente i resti del meteorite come gocce di oro nero, lì a narrare una storia in bilico fra il futurismo più estremo e una riscoperta quasi archeologica del proprio passato.
Nella sala non si è da soli, perché a circondare gli avventori c’è la presenza divina, mistica, un po’ aliena e un po’ robotica, estremamente spirituale e senza vita, di Wabar. Quest’entità mistica, come piace ad Al Qadiri, che ci tiene a ribadire l’importanza dell’aspetto spirituale nell’arte, ci guida in un percorso dove “a pale man”, un uomo bianco, viene a contatto con la delusione di non aver trovato ciò che sperava durante le sue esplorazioni. Il tema delle emozioni umane e dell’avarizia, specialmente dell’uomo bianco, sono centrali nell’arte di Monira.
Un’importante sezione dell’opera viene dedicata a un ammonimento che Wabar rivolge a chi li ascolta. “Attenzione alla maledizione della perla nera”, avvertono. Le conseguenze di tale maledizione sarebbero sete, carestia, malattia. “Noi ti proteggeremo”, dichiarano le entità divine alla fine. L’artista spiega che ama dare un aspetto chiaroveggente alle sue opere, come se fossero in grado di predire il futuro e ammonire chi le osserva. Wabar cerca di mettere in guardia l’avventore sui pericoli di ignorare una Terra sofferente, stremata dallo sfruttamento delle sue risorse, e giunta al limite delle sue capacità. Al Qadiri cerca di mettere gli spettatori davanti a uno specchio e di farli sentire parte della natura, per ricordare loro che sono anch’essi fragili.
Avana Amadei