Resistere ed esistere: il sumud palestinese
Da oltre settant’anni il popolo palestinese lotta per affermare la sua esistenza e guadagnarsi i propri diritti: la Nakba, il momento storico tra il 1947 e il 1948 che ha visto l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, la distruzione di villaggi e di città per mano di milizie armate sioniste in corrispondenza alla nascita dello Stato di Israele, ha rappresentato una vera e propria catastrofe per la collettività palestinese. Questo articolo non si occuperà di riportare i fatti di quel che accade nei territori di Palestina e Israele e della loro travagliata storia, ma si concentrerà quanto più sul concetto nazionale palestinese di sumud, sul suo sviluppo e sul significato che riveste oggi.
Origini
Tradotto letteralmente il termine significa “fermezza” o “perseveranza incrollabile” e deriva dal verbo “disporre, salvare”. Il sumud venne sin da subito attribuito alla determinazione del popolo palestinese di restare sulla propria terra: è infatti probabile che indicasse il loro forte attaccamento al territorio nel periodo del Mandato britannico. Nella loro aspirazione all’autodeterminazione, infatti, i palestinesi si sono trovati a resistere non solo al progetto del movimento sionista, ma anche all’imperialismo britannico.
Sviluppi
Il mantenimento di uno spirito sumud proseguì tra le famiglie e le comunità dei Territori Occupati da Israele e divenne fondamentale durante la guerra dei sei giorni del 1967, quando in molti, ancora una volta, si ritrovarono a dover decidere se restare o partire. Ricordando gli eventi del 1948, le famiglie scelsero di aggrapparsi alle proprie case e terre per non lasciare agli israeliani la possibilità di appropriarsene: l’olivo, che con le sue profonde radici dà i suoi frutti solo dopo diversi anni di crescita, divenne il simbolo della resistenza e un’espressione metaforica del concetto di sumud.
Il termine continuò ad essere utilizzato in relazione alla rinascita della coscienza nazionale palestinese, dopo che il movimento di resistenza OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) emerse come leader nei campi profughi presenti in Giordania e Libano. I rifugiati che vivevano in questi campi vennero infatti definiti samidin, ossia coloro che esibiscono sumud, che stanno fermi, nonostante la loro forza di volontà venisse messa a dura prova dai soprusi israeliani.
Il concetto è strettamente legato alla terra e all’agricoltura, spesso infatti rappresentato nell’immagine del contadino che si rifiuta di lasciare i suoi terreni: non a caso, i freedom fighters palestinesi, noti con il nome di fedayìn, erano tra i rappresentanti più valorosi dell’esercizio del sumud, così come i mutaradeen, coloro che per scappare dalle milizie israeliane indossavano il tradizionale copricapo bianco e nero Kufeyyah, nascondendo la propria identità.
Nel corso degli anni Settanta il termine venne sempre più associato ai palestinesi che vivevano all’interno dei Territori Occupati di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, rafforzato e diffuso anche grazie all’arte. Nelle suo opere l’artista Sliman Mansour rappresenta il sumud attraverso la vita e la cultura dei palestinesi e il loro impegno nella resistenza all’occupazione israeliana, mentre Tawfiq Zayyad, il “poeta della protesta”, lo riporta nei suoi versi:
With my teeth I’ll protect
every inch of my homeland.
With my teeth.
Nothing can replace the homeland for me
even if they would hang me
with my own veins.
I stay
a prisoner of my love
for the fence that surrounds my house
for the dew on the bowing lily.
I stay
unvanquished by every hardness.
I stay
I’ll protect every inch of my homeland.
With my teeth.
Gli anni Settanta e Ottanta
Il primo contesto ufficiale in cui la parola sumud venne utilizzata come motto in discorsi e testi politici per indicare lo spirito coraggioso dei palestinesi fu nel 1978, anno in cui in Giordania fu aperto il fondo “Sumud Aid Funds” che raccoglieva contributi da paesi arabi per supportare l’economia dei palestinesi nei Territori Occupati. Da quel momento, il sumud divenne una vera e propria strategia atta a sviluppare delle strutture che potessero rendere i palestinesi il quanto più indipendenti possibile dagli israeliani, specialmente in un decennio in cui gli insediamenti sionisti all’interno dei Territori crescevano a vista d’occhio.
Negli anni Ottanta l’avvocato palestinese Raja Shehade scrisse un diario in lingua inglese, il cui obiettivo era comunicare ad un pubblico internazionale, influenzato da stereotipi e media locali, quella che era la quotidianità dei palestinesi per dare loro una voce e una storia. Portò allora la parola sumud da un livello puramente astratto e retorico, utilizzato per rafforza l’unità nazionale e la lotta strategica, ad un concetto che comprende un’ampia varietà di sfumature: secondo le sue parolee il termine porta con sé un legame profondo profondo alla propria casa e il radicamento alla patria, implica la resistenza contro le pressioni, la lotta per mantenere vive l’integrità e la dignità, la scelta personale di proteggere la Palestina, scelta che va ben oltre al beneficio personale. Comprende l’esercizio di una pazienza attiva, e non di un’azione passiva. Ma soprattutto non comprende solo resilienza e sofferenza, ma è la capacità di godersi la vita nei momenti quotidiani, è vita stessa.
Il sumud oggi
Attaccandosi all’ultimo punto proposto da Shehade, si può affermare che oggi il sumud si distacca in parte dal suo significato originario: non è più solo un’azione collettiva che permette ai palestinesi di sopravvivere, ma bensì un’azione che va oltre e punta alla ricostruzione di una nuova terra, un’ideologia che permette di continuare ad esistere e vivere – e non solo sopravvivere – all’interno di una consolidata rete di strutture coloniali che minacciano continuamente la vita dei palestinesi. Ci si allontana dunque dal significato unico di resilienza e si inizia a pensare al sumud come il riconoscimento di una vera e propria capacità di azione e di pensiero palestinese, che porta di conseguenza a riconoscere la vita e l’esistenza di un popolo oppresso ma capace di stare nel mondo, simbolicamente e politicamente.
La persistenza dell’occupazione, l’aumento del numero delle vittime, la recente uccisione da parte dell’esercito israeliano di Shireen Abu Aqleh, giornalista di Al Jazeera nel campo profughi di Jenin, dimostrano come la Nakba sia, per i palestinesi, una ferita aperta e costantemente prodotta dal processo coloniale: nonostante ciò, la lotta collettiva di questo popolo continua a resistere, e lo spirito del sumud resta vivo in uno dei più grandi esempi di resilienza della storia, creando vita nella resistenza.
Sumud è continuare a vivere in Palestina, ridere, godersi la vita, innamorarsi, sposarsi e avere dei figli. Poter continuare gli studi altrove, diplomarsi, e ritornare qua. Difendere dei valori. Costruire una bellissima casa anche quando gli israeliani continuano a distruggere, per poi ricostruirne una ancora più bella. Questo è sumud. Il fatto che io sia qui è sumud. Rivendicare che tu sia un essere umano e difendere la tua umanità è sumud.
Abdel Fatah Abu Srour, direttore della ONG al-Ruwwad nel campo profughi ‘Aida.
Alessandra Soldi
Fonti
- To Exist Is To Resist: Sumud, Heroism, and the Everyday, Alexandra Rijke & Toine van Teeffelen