“Ogni mattina a Jenin”: un romanzo d’amore
“Ogni mattina a Jenin” è un romanzo storico in cui i personaggi sono inventati, ma calati in un’epoca passata della quale si ricostruiscono i fatti realmente accaduti. Insieme alla protagonista del nostro romanzo, Amal, e alla sua famiglia, intraprendiamo un viaggio nel tempo che ci permette di ripercorrere la storia del popolo palestinese dalla Nakba del 1948 fino al 2002.
Questa storia è anche la storia di altri milioni di palestinesi, nati profughi proprio come Amal, con l’obbligo morale di avere speranza per poter continuare a credere nel futuro. Il sentimento di speranza accompagna il lettore sin dalle prime pagine, quando la famiglia di Dalia viene “deportata” nel campo profughi di Jenin, fino alla lettera di Yussef, fratello di Amal, in cui dichiara di essere riuscito a mantenere fede al suo amore verso l’umanità, nonostante tutto il male subito.
Lo stile del romanzo è unico, forse anche per il suo taglio estremamente femminile: la genealogia che ci narra la Palestina è al femminile, e le interiorità esplorate dall’autrice tradiscono una grande attenzione all’universo delle donne. Il coinvolgimento nella storia è stato ancora maggiore grazie a questo elemento, sia stilistico che narrativo.
L’autrice incastra abilmente poesia e prosa. La poesia ha un forte valore per Amal, è ciò che la lega indissolubilmente al suo papà e dunque alla sua terra. Ogni mattina a Jenin Amal e suo padre leggevano una poesia in mezzo alla guerra, alla devastazione, all’instabilità del campo profughi. La poesia, insieme alla preghiera, diventa un faro che aiuta i protagonisti a rimanere attaccati alla loro umanità e a non cadere nell’odio. Il titolo del libro, “Ogni mattina a Jenin”, rimanda proprio a una quotidianità ricca di umanità. La narrazione si intreccia alla poesia e alla preghiera creando un’atmosfera molto spirituale: esse arrivano in aiuto al racconto quando, paradossalmente, le parole non sono abbastanza. Talvolta, la capacità di Abulhawa di andare a fondo nella psicologia delle protagoniste è talmente intensa da sfumare i confini tra poesia e narrativa.
La narrazione, infatti, è caratterizzata da descrizioni dettagliate sia dei sentimenti e sensazioni provate dai protagonisti sia dei luoghi in cui si svolgono le vicende. Grazie alla sua prosa, la scrittrice ci dona la possibilità di immergerci profondamente in questa storia e di creare una stretta connessione con i personaggi, risulta inevitabile provare empatia nei loro confronti. Riusciamo a percepire il terrore di Amal e Huda mentre sono rifugiate nella buca, la disperazione di Yusef e la rabbia nello scoprire la sua perdita, la curiosità di Sara durante la scoperta delle sue radici… L’originalità del romanzo risiede proprio nel modo unico di raccontare la storia attraverso i sentimenti delle persone.
Le interiorità dei personaggi si intrecciano spesso con la storia, arrivando a sovrastarla e sostituirla: leggendo questo romanzo si ha la sensazione di viaggiare dentro alle emozioni e alle sensazioni dei protagonisti. La potenza stilistica dell’autrice trasmette al lettore una tragedia umana di immense dimensioni attraverso i vissuti personali e singolari di uomini, donne, ragazzi e ragazze con cui l’identificazione può essere semplice. Le digressioni psicologiche trasudano complessità emotiva e grande coinvolgimento, svelando al lettore un mondo intimo, profondo, sfaccettato. Le sensazioni dei protagonisti sono spesso al centro delle vicende o le sostituiscono, rendendo le lotte personali dei protagonisti metafora di quella palestinese, e viceversa. “Qualsiasi cosa, tienitela dentro.”
La speranza è l’altra coprotagonista di “Ogni mattina a Jenin”. Le donne ne sono simbolo e possiamo cogliere l’importanza che la scrittrice ha voluto attribuire alla speranza proprio nel nome della protagonista: Amal (امل), che in arabo significa proprio “speranza”.
La tematica della speranza torna quando ad Amal viene offerta la possibilità di studiare a Gerusalemme, lasciando il campo profughi di Jenin dove è cresciuta. ‘Ammu Darwish, suo zio, le dice:
“Non c’è futuro in un campo profughi, Amal. L’aria è troppo pesante per la speranza. Ti viene data la possibilità di fare fiorire la vita che giace addormentata in tutti noi. Coglila.”
L’aria sembra troppo pesante per la speranza in alcuni momenti della narrazione, in cui vengono descritti con crudezza alcuni episodi storici, come il massacro di Shatila.
Il libro non si concentra sul male fatto ma sul dolore che questo male ha creato, su come il male viene vissuto dalle persone. È inevitabile durante la lettura non percepire il buio e la negatività di alcune vicende; tuttavia, i protagonisti continuano ad emanare la luce della speranza in un futuro migliore e dell’amore verso le persone a loro care. Per Amal sarà l’amore incondizionato verso la figlia Sara che le permetterà di continuare a vivere, in lei troverà il senso della sua vita:
“Capii allora che avevo trovato la mia patria, era sempre stata là”.
Lo scopo della scrittrice del romanzo non è quello di accusare Israele, le vicende vengono narrate e descritte senza denunciare i fatti, poiché essi parlano da soli. Infatti, questa storia non è un dito puntato contro Israele: è un intero popolo con il pugno alzato verso il mondo, è un esercito di cuori femminili ricolmi di sensazioni e fierezza che resistono al tentativo di inaridirli; è una schiera di panorami, nomi, corpi che si innalzano con semplicità contro l’ingiustizia evidente. La semplicità dell’amore di Fatima per Yussef, la bellezza del Mediterraneo che incontra il cielo sopra a un amore che sboccia, la magia di un gruppo di bambini che si conosce e si scopre su un paesaggio rurale, e la semplicità disarmante dei loro desideri:
“Un letto vero.” “Niente soldati.” “Un parco giochi.” “Un giardino.” “Una bicicletta.”
Questa semplicità si infrange nel momento in cui le bambine non devono seppellire una neonata, o quando Fatima e Yussef vengono separati dalla disperazione, e il Mediterraneo si squarcia di fronte alla devastazione.
A nostro avviso questo messaggio viene amplificato attraverso la storia dei due fratelli; il primo rapito dalle braccia della madre Dalia da neonato diventa un soldato israeliano, il secondo Yussef, si arruola alla resistenza palestinese. Fratelli senza saperlo, la vita li ha portati a schierarsi sui due fronti opposti e a diventare nemici.
Sarà poi l’amore che porterà entrambi a comprendere che il male genera solo altro male. Questa consapevolezza lascia intravedere ancora una volta la speranza, coprotagonista del libro.
“Ogni mattina a Jenin” è un romanzo d’amore. L’amore per la Palestina, l’amore per l’amore, l’amore per i palestinesi. L’amore secondo i palestinesi. L’amore patriottico e sconsolato, l’amore orgoglioso e fiero, l’amore romantico che intreccia le vite dei protagonisti continuando a tessere le trame di un popolo che non vuole smettere di esistere.
L’amore sboccia nell’aridità: nella terra di Palestina brulla, nel campo profughi devastato, nel cuore distrutto di Jolanta e nel suo ventre prosciugato dalle angherie naziste. L’amore di Amal per Sara, che è un amore sofferto. Sara ricorda ad Amal la Palestina, e Majid, e tutto ciò che ha perduto e ha dovuto accettare sotto forme diverse – se stessa in primis. L’amore sparisce e si spegne talvolta, ma è sempre presente.
L’amore vive nell’interiorità delle donne protagoniste, si sviluppa e si acquieta seguendo gli andamenti dei loro cuori. L’amore di Dalia per Darwish è rinnegato, e forse con esso l’amore per la terra. L’amore è contraddittorio e sfaccettato: per amore Moshe ruba un bambino, e per amore Jolanta lo alleva nascondendogli l’atrocità del suo segreto.
L’autrice riesce a dipingere un quadro più elaborato e complesso dietro a questioni che vengono polarizzate. La causa palestinese, il rapporto madre-figlia, il rapimento di un neonato: tutto può sembrare piatto e facile da giudicare. Abulhawa sa rendere giustizia a situazioni umane complesse, senza appiattire il giudizio e regalando un contesto prezioso per l’interpretazione dei fatti.
Avana Amadei
Giorgia Facchini