Femminismi e Medio Oriente

Noi non siamo musulmane, né abbiamo origini mediorientali. Non siamo le protagoniste di questo articolo. Il lavoro che segue non ha alcuna pretesa di dare risposte, perché noi, in primis, non ne abbiamo; ma soprattutto perché non vogliamo tracciare contorni definiti a una realtà che abbiamo solo potuto leggere e scoprire, senza viverla in prima persona. Rischieremmo di perpetrare una modalità narrativa di osservatori esterni che esprimono un giudizio non richiesto.

Studiando il Medio Oriente ci siamo imbattute in una narrazione di femminismo inedita rispetto a quelle a cui eravamo abituate. I femminismi “mediorientali” sono plurali, religiosi, laici, antichi, nuovi, a volte anche in contrasto. Con questa modesta esplorazione delle diverse correnti femministe non intendiamo darvi risposte, ma, piuttosto, gettare legna nel fuoco dei dubbi e delle domande.

Prima di scrivere, ci siamo poste più volte la questione della nostra legittimità a parlare di temi, persone, azioni che saremo inevitabilmente portate ad affrontare secondo quella che è una nostra prospettiva. Ma, proprio perché siamo convinte dell’importanza di far parlare le persone piuttosto che di parlare delle persone*, tenteremo di fornire alcuni strumenti che hanno permesso a queste voci, di solito filtrate, di arrivare fino a noi nella loro autenticità.

Rimanere aperti all’ascolto diretto della complessità dell’altro rimane il punto di partenza imprescindibile.

La necessità di un femminismo decoloniale

“Le decolonial, c’est de voir comment la société demeure structurellement raciste, structurellement sexiste, parce que les deux vont très souvent ensemble”.

“Decoloniale è vedere come la società rimanga strutturalmente razzista, strutturalmente sessista, perché molto spesso queste due cose vanno insieme”: queste le parole con le quali la studiosa e attivista Françoise Vergès tenta di racchiudere il concetto di decoloniale.

Più che di un concetto si tratta di una modalità di pensiero, una categoria interpretativa che rivendica la necessità di un’effettiva liberazione dal colonialismo, che, pur esauritosi nella sua forma più evidente, rimane ancora determinante nell’approccio e nella rappresentazione dell’alterità. Il pensiero decoloniale trova una sua declinazione anche nel tentativo di decostruzione di un femminismo pensato dalle e per le donne occidentali. Per citare ancora Vergès “un femminismo decoloniale prende in considerazione tutti i livelli e tutti gli elementi di un’oppressione”.

La necessità di una visione plurale e la ricostruzione di un immaginario di donna “araba” che sia diverso dai principali stereotipi ad essa legati (esotismo e sensualità da un lato; vittima oppressa da un’arretrata società patriarcale dall’altro) sono alla base di un femminismo decoloniale che contribuisca a far parlare i “movimenti delle donne” in ambito mediorientale.

Huda Shaarawi: la prima femminista?

Nel 1923, alla stazione del Cairo, un nugolo di donne crea scompiglio. Si tratta di Huda Shaarawi e delle sue colleghe che, di ritorno da Roma, dove erano state invitate a una riunione della Lega per il Suffragio Universale, si tolgono il velo pubblicamente. Altre donne presenti alla stazione le vedono e decidono di imitarle.

Difficilmente un gesto diverso dallo svelarsi in pubblico in segno di protesta conferma con altrettanta efficacia il segreto pregiudizio occidentale che vuole la donna velata e musulmana sottomessa, infelice, costretta. Sfilarsi l’hijab in segno di protesta, a maggior ragione se a farlo è una donna egiziana come Huda, risponde perfettamente ai dubbi occidentali su quanto sia corretto intervenire su una pratica religiosa per procedere con la liberazione femminile.

Huda Shaarawi (1879 – 1947) cresce in un contesto prevalentemente femminile. La differenza di trattamento riservata a lei rispetto al fratello, soprattutto in ambito educativo, la portano a maturare la necessità di interrogarsi sul ruolo della donna e sui suoi diritti. Celebre è la sua marcia del 1919: insieme ad altre donne, tutte velate, scende in piazza per protestare contro l’occupante inglese.

La lotta di Huda inizia con l’apertura di circoli e associazioni dedicate alle donne. Ritagliandosi uno spazio personale in una realtà doppiamente occupata, dal patriarcato e dal colono inglese, Huda consegna alle donne egiziane la possibilità di immaginarsi fuori dai ruoli tradizionali. Il suo obiettivo è l’ampliamento delle capacità operative e gestionali delle donne, e conseguentemente dei loro orizzonti. Accompagnando la donna egiziana fuori dalla sfera privata, Huda compie un gesto simile alla sua pubblica rimozione del velo. Sia sfilandosi l’hijab che creando associazioni femminili, Shaarawi rimuove le barriere ideologiche che impediscono alle donne di impadronirsi dello scenario pubblico. Svelandole e rendendole consapevoli delle proprie potenzialità e capacità attraverso l’azione sociale, Huda contribuisce alla causa femminista “made in Egypt”.

Il velo rimane un tema alquanto dibattuto e centrale nella discussione femminista, islamica e non. Se per Huda toglierselo pubblicamente può aver significato una liberazione prima di tutto simbolica, oltre che concreta, ci sono numerose correnti di femminismo islamico che non trovano alcuna contraddizione fra il coprirsi il capo e combattere per la parità dei diritti per le donne.

Femminismi islamici

Il plurale si rende necessario per trattare adeguatamente quei femminismi che gettano le proprie radici nell’Islam.

L’islam può rivelarsi molto più dinamico e flessibile di quanto ci si aspetti. Al contrario di come viene talvolta dipinta dai media più approssimativi, che la vogliono presentare come rigida e granitica, questa fede si presta particolarmente all’interpretazione continua delle fonti. L’islam manca di un capo unico, non ha dogmi e, anzi, al suo interno convivono numerose correnti differenziate. Basti pensare che, nel 1957, quando l’ex presidente tunisino Bourghiba promulga un codice di diritto civile molto favorevole per le donne (condannava la pratica del talaq, il ripudio, e la poligamia) si serve proprio dell’interpretazione di ulama (sapienti religiosi) per legittimare le sue leggi. Così come si poteva dare una certa interpretazione alle sure coraniche, sfavorendo particolarmente la condizione femminile, altrettanto si poteva fare nel verso opposto. Non è l’islam ad aver generato un sistema patriarcale. È il sistema patriarcale ad essersi servito anche della religione.

In questa cornice religiosa, in costante movimento, si colloca anche la crescente rivendicazione di una sempre maggior parità di genere.

I femminismi islamici sorgono nel XIX secolo e tutt’oggi, nonostante non abbiano trovato unità assoluta, lavorano nel proprio contesto con l’obiettivo di garantire parità di diritti. Ogni corrente risponde alle esigenze particolari del contesto socio-culturale in cui sorge.

Il velo, al centro di molti contenziosi, fa sicuramente parte di questo arsenale. Molti concordano sul fatto che la singola donna sia da interpellare, quando sorge il dubbio se quella del velo sia un’imposizione o una libera scelta. Cosa risponderebbe una donna iraniana? E cosa una donna marocchina? O, ancora, una donna afghana?

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Proprio come la religione stessa, il velo è stato interpretato in diverse maniere. Talvolta ha rappresentato l’ennesima negazione dell’arbitrio sul corpo femminile: un corpo che non appartiene più alla donna, ma a un sistema più ampio, che può servirsene e deciderne le sorti. Altre volte, il velo si è posto e si pone al centro di un grande progetto di autodeterminazione, come il fondamentale tassello di un’identità complessa, che non vuole rinunciare a se stessa.

Le femministe musulmane sanno che, nel grande spettro di possibilità che l’Islam offre, ce ne sono in abbondanza anche per donne che desiderano la parità di diritti, senza che queste debbano forzatamente ricorrere agli strumenti già progettati dall’Occidente. Le diverse correnti si nutrono e si ispirano a vicenda, senza però necessariamente ricorrere a compromessi e dover rinunciare a parte della propria identità specifica. Se da un lato questa forza permette di portare avanti battaglie localizzate, dall’altro crea sicuramente frammentazione e difficoltà a cooperare.

Avana Amadei
Elena Sacchi

*Formula rielaborata dalle parole della giornalista francese Lauren Bastide, pronunciate nel suo podcast femminista “La Poudre”, che potete ascoltare qui

Approfondimenti

Per approfondire, vi lasciamo di seguito alcuni consigli di lettura e di visione.

  • Renata Pepicelli – Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme
  • Renata Pepicelli – Il velo nell’islam
  • Anna Vanzan – Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici
  • Anna Vanzan – Primavere rosa
  • Anna Wadud – Inside the gender jihad. Women’s reform in Islam
  • Femminismi e Islam in Marocco: attiviste laiche, teologhe, predicatrici
  • R. Pepicelli – I movimenti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente: percorsi e generazioni femministe a confronto.
  • Conferenza di Anna Vanzan: https://www.youtube.com/watch?v=MP_AQ8QT3MQ&t=2208s
  • Sul femminismo decoloniale intervista a Françoise Vergès : ttps://www.youtube.com/watch?v=SNjuS5MCmRI&t=35s

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