Qatar 2022, il lato nascosto dei Mondiali

La data d’inizio dei Mondiali di calcio 2022 che avrà sede in Qatar è prevista per il 20 novembre. Nonostante manchino pochi giorni al fischio d’inizio il tema dei diritti umani continua a restare al centro del dibattito e dell’attenzione pubblica.

Si denuncia soprattutto il mancato rispetto delle tutele dei lavoratori coinvolti nell’organizzazione dell’atteso evento calcistico, e a farlo sono numerose organizzazioni non governative, stampe internazionali e agenzie, ma anche alcune delle stesse Federazioni calcistiche che scenderanno in campo con le rispettive nazionali.

Le prime tensioni

Grazie al rapido sviluppo delle infrastrutture e al crescente miglioramento della situazione economica, il Qatar ospita oggi più di due milioni di lavoratori stranieri, soprattutto asiatici e africani, i quali rappresentano all’incirca l’85% dei lavoratori del paese.

Un forte contributo all’aumento dei posti di lavoro è stato dato nel 2010, quando a Doha il Qatar viene scelto come nazione ospitante dei Mondiali di calcio 2022. Non bisognerà attendere troppo tempo prima che si sollevino delle importanti polemiche attorno al caso: siamo nel 2015 quando un’inchiesta dell’FBI ritiene la votazione tra i membri dell’esecutivo FIFA ampiamente corrotta e l’assegnazione di paese ospitante al Qatar come non trasparente.

In una successiva inchiesta, France Football rivela che pochi giorni prima dell’attribuzione ci fu una riunione tra l’attuale emiro del Qatar, Tamin ben Hamad al-Thani, l’ex presidente UEFA Michel Platini, Nicolas Sarkozy e il suo braccio destro, durante la quale avrebbero discusso dell’ipotetico acquisto da parte del Qatar del Paris Saint-Germain – società calcistica della capitale francese – e la creazione del canale BeInSports – ad oggi uno dei principali network di canali sportivi – a patto che Platini non votasse per gli Stati Uniti ma per il Qatar. Di recente lo stesso ex presidente della FIFA Joseph Blatter ha dichiarato a un quotidiano svizzero che la scelta del Qatar “è stata un errore” e che non a caso “sei mesi dopo, il Qatar ha acquistato aerei da caccia francesi per 14,6 miliardi di dollari“.

La corruzione non è stato l’unico fatto controverso legato all’evento: ancora oggi i riflettori internazionali restano accesi sul tema della violazione dei diritti umani e dello sfruttamento dei lavoratori stranieri impiegati nella realizzazione degli impianti destinati alla manifestazione.

Sono otto gli stadi in cui si disputeranno le partite, tutti costruiti appositamente per l’evento e alcuni dei quali al suo termine verranno smantellati. Dei due milioni di lavoratori stranieri, circa un milione è stato impiegato nelle costruzioni: non vi sono dati ufficiali su quanti sarebbero deceduti o si sarebbero infortunati durante i lavori. Tra le fonti più affidabili vi è un report dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro pubblicato nel 2021, nel quale si attesta che solo nel 2020 sarebbero morti 50 operai e rimasti feriti più di 500, mentre secondo il quotidiano inglese The Guardian i lavoratori morti ogni settimana dal dicembre 2010 sarebbero stati 12, provenienti soprattutto da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka, arrivando così a un totale di circa 6,750 vittime dal 2010 al 2020.

Le condizioni climatiche

Nonostante la loro morte resti priva di spiegazioni e i numeri poco chiari (Amnesty International parla di almeno 15mila decessi), centinaia di queste persone sono state, con molta probabilità, uccise dalle alte temperature alle quali erano sottoposte durante i turni lavorativi (temperature sempre superiori ai 35-40°).

Il Golfo Persico è una delle zone desertiche più vaste al mondo, e anche per questo l’impatto ambientale zero dichiarato dall’emirato porta con sé molte perplessità: gestire otto stadi e altri 130 campi di allenamento, creare un manto d’erba giusto in un clima come quello qatariota implica un enorme consumo di energia per i sistemi di raffreddamento e utilizzo di acqua dissalata. Si stima infatti che l’impronta ecologica sarà superiore di otto volte rispetto a quanto previsto.

Le restrizioni all’informazione e la mancanza di diritti

Le autorità del Qatar hanno fornito a media e giornalisti delle linee guida molto chiare: senza il rilascio di un apposito permesso sarà vietato filmare negli edifici governativi, università, luoghi di culto e all’interno dei luoghi di alloggio. Proprio in questi ultimi sono state avviate numerose inchieste rispetto alle condizioni in cui vivono i migranti: si parla di città-dormitorio, dove milioni di persone vivono ammassate in piccole stanze con scarse condizioni di igiene.

Human Rights Watch e la Confederazione sindacale internazionale (ITUC) denunciano il sistema della Kafala, attraverso il quale viene demandata al datore di lavoro la responsabilità di regolamentare il trattamento degli impiegati stranieri, rendendo questi ultimi vulnerabili a sfruttamento e abusi e ponendoli nella condizione di non poter cambiare lavoro o lasciare il paese (ne abbiamo parlato meglio in questo articolo).

Nel novembre 2013, Amnesty International ha denunciato il governo per azioni di grave sfruttamento dei lavoratori che, secondo un rapporto dell’ONG, per riottenere i loro passaporti precedentemente sequestrati dai datori di lavoro, sarebbero stati costretti a firmare false dichiarazioni e affermare di aver ricevuto il salario spettante, cosa in realtà mai avvenuta.

In seguito alle pressioni internazionali e dei media occidentali, nell’ottobre 2017 il Qatar ha firmato un accordo volto in primis a migliorare la situazione dei lavoratori migranti. Tale accordo prevedeva riforme sostanziali nel sistema del lavoro, inclusa la fine del sistema Kafala. Nel 2020 è stata introdotta la legge sul salario minimo (1,000 QAR, l’equivalente di 276 euro) e nuove riforme che consentirebbero ai migranti di cambiare lavoro e lasciare il Paese senza il consenso del datore di lavoro, ma gli osservatori internazionali riportano che nei fatti poco è cambiato.

Si parla del fenomeno di “ripulitura dell’immagine“, tipico degli Stati il cui percorso di democratizzazione è appena, a piccoli passi, iniziato, e di “sportwashing“, dove la polvere viene messa sotto il tappeto e lo sport utilizzato per modernizzare la proprio immagine e distogliere lo sguardo dei riflettori internazionali su importanti e scomode situazioni, come quella dei diritti umani.
Se la revisione delle norme sul lavoro del 2017 ha portato ad alcuni miglioramenti, la situazione non può ancora considerarsi all’altezza degli standard internazionali e non protegge efficacemente i lavoratori migranti.

Le proteste

A tal proposito, non sono mancate prese di posizione e proteste in nome della difesa dei diritti umani.

Tra gli esempi che più hanno avuto visibilità mediatica vi è quello della nazionale danese, le cui divise saranno monocromatiche per “non essere visibili durante un torneo che è costato la vita a migliaia di persone” e avranno anche una terza maglia interamente nera, in simbolo di lutto contro le morti sul lavoro.

Lille, Strasburgo, Marsiglia, Parigi e altre città francesi non trasmetteranno sui maxi schermi nessuna partita dei Mondiali e Philipp Lahm, ex capitano della nazionale tedesca, ha deciso di non far parte della delegazione della Fifa in Qatar motivando così la sua scelta: “I diritti umani devono avere un ruolo maggiore nell’assegnazione delle manifestazioni. Non dovrebbe succedere di nuovo in futuro. I diritti umani, le dimensioni del Paese: tutto questo, a quanto pare, non è stato preso in considerazione. E i giocatori non possono far finta di non saperlo”.

Quale verità?

Se da un lato c’è chi, come il dirigente dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) Luc Cortebeeck, sottolinea che “la trasformazione di queste denunce in un impegno vero da parte del governo del Qatar è un cambiamento positivo per tutti i lavoratori e uno sviluppo incoraggiante”, dall’altro ci sono Amnesty International, inchieste giornalistiche e attivisti che continuano a denunciare il Qatar per l’incorretta o mancata attuazione delle recenti riforme. Di fatto i datori di lavoro hanno ancora un controllo eccessivo sulla vita dei propri impiegati, molte aziende non pagano adeguatamente i propri dipendenti e il vigente divieto di costruire sindacati non dà alcuna possibilità di lottare collettivamente in nome dei propri diritti e ottenere giustizia.

Di fronte agli operai costretti a lavorare con temperature altissime, sette giorni su sette per dodici ore, la Fifa si è voltata dall’altra parte, mentre grazie a questo stratagemma le famiglie dei lavoratori deceduti non hanno potuto nemmeno chiedere un risarcimento.
Inoltre, la stretta censura a cui sono sottoposti i giornalisti renderà ancora più difficile ottenere dati precisi e coprire parte delle notizie.

Alessandra Soldi


Fonti

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