Sanzioni in Iran: come funzionano? Quali prospettive?

Molto spesso quando si parla di sanzioni si tende ad analizzare gli sviluppi della vicenda, in questo caso quella iraniana-statunitense, dando per scontate notevoli informazioni teoriche riguardo l’utilizzo di strumenti economici in politica estera. Questo però non rende giustizia alla complessità del tema delle sanzioni e non aiuta a capire perché molto spesso si scelgano le sanzioni piuttosto che altre soluzioni. In questo articolo, che purtroppo per voi non sarà così breve, cerchiamo di far luce sulle sanzioni e su come funzionino. Solo dopo aver introdotto adeguatamente la tematica parleremo del caso iraniano. Speriamo possa essere interessante. (Se il pippone teorico non vi interessa saltate direttamente all’ultimo paragrafo!)

Sanzioni: una dovuta introduzione

Per prima cosa riteniamo utile sottolineare qualche concetto teorico riguardo le sanzioni e far capire come esse non siano un monolite ma possano assumere varie forme: infatti ne esistono sia di positive, attraverso la promessa o l’effettivo riconoscimento di un beneficio economico verso lo stato target (come a esempio il conferire sostegno valutario a uno stato, o il garantire accordi commerciali preferenziali, o ancora favorire i flussi di investimento estero), che di negative, mediante la minaccia di infliggere o la reale imposizione di un danno allo stato target per ottenere il proprio risultato di politica estera. Di questa seconda categoria fanno parte gli embarghi commerciali totali e selettivi, il dumping valutario, il congelamento degli asset finanziari e altre tipologie quali le restrizioni agli investimenti o agli aiuti esteri.

Dopo aver sottolineato questa prima dicotomia dobbiamo subito smentirci, ebbene sì! Infatti la distinzione tra sanzioni positive e negative è molto più sfumata di quanto sembri: infatti, generalmente sono frutto di coercizione da parte dello stato forte verso lo stato debole, che non può far altro che adeguarsi agli obiettivi dello stato sanzionatorio. In poche parole: sono frutto della prepotenza dello stato forte contro lo stato debole. Nonostante come abbiamo visto le distinzioni siano più flebili di quanto appaiano, questa divisione può essere utile per comprendere l’atteggiamento di uno stato nei confronti di uno stato rivale.

Quattro sono gli obiettivi che uno stato vuole raggiungere attraverso le sanzioni:

  1. Alterare la politica interna di un paese (tenendo conto del caso iraniano potremmo citare la volontà statunitense di evitare la nuclearizzazione iraniana);
  2. Influenzare il comportamento di politica estera di un paese (secondo questo obiettivo potremmo osservare il tentativo statunitense d’indebolire l’Iran e il corridoio mediterraneo, o mezzaluna sciita, che lo stato mediorientale stava creando attraverso l’influenza in Iraq, in Siria, in Libano e a Gaza);
  3. Incidere sulle capacità militari ed economiche dello stato target (qui l’esempio che possiamo fare è quello dei pozzi petroliferi iraniani estremamente obsoleti tecnologicamente, o ancora quello del mercato petrolifero iraniano, oggi in seria difficoltà per l’incapacità nel vendere il proprio greggio);
  4. Provocare un mutamento di regime, obiettivo estremamente ambizioso quanto difficilmente realizzabile.

A questo punto risulta utile porsi un’ulteriore domanda: le sanzioni ottengono il loro risultato? Anche qui dobbiamo dubitare di risposte pronte e semplicistiche e analizzare più nel dettaglio i quattro problemi che le sanzioni portano con sé:

  • Le sanzioni hanno difficoltà a massimizzare il loro danno a causa della capacità, in un sistema internazionale interconnesso come quello in cui viviamo, di trovare nuovi sbocchi ai propri commerci. Ovvero gli stati riescono a trovare sempre più spesso altri stati con cui commerciare nonostante le sanzioni.
  • Le sanzioni possono avere un effetto controproducente: piuttosto che portare a una frattura all’interno della classe politica o a una frattura tra classe politica e popolazione, con l’obiettivo di ottenere il risultato sperato, esse creano un fenomeno chiamato rally ‘round the flag che, in parole povere, è la coesione che si crea attorno alla leadership in nome della sicurezza nazionale e in opposizione a una minaccia.
  • Le sanzioni possono essere, soprattutto se mantenute per lunghi periodi, dannose sia per chi le subisce che per chi le impone, creando inevitabilmente un sentimento di avversione nei confronti delle stesse.
  • Da ultimo, nel caso in cui imponessero danni alla popolazione indifesa dello stato target, le sanzioni potrebbero creare una forte opposizione nella propria opinione pubblica interna, rendendo le sanzioni stesse qualcosa di malvisto.

Se quindi le sanzioni sembrano non funzionare risulta utile chiedersi perché vengano utilizzate. Qui abbiamo un ulteriore elenco da proporvi ma saremo concisi, i principali motivi di utilizzo delle sanzioni sono dovuti al fatto che:

  1. Oltre a obiettivi di primaria importanza sussistono anche obiettivi secondari (es. dal cambio di regime in Iran, obiettivo massimo ma difficilmente realizzabile, si può puntare a danneggiarne le sue capacità economiche);
  2. Possono essere usati per aprire la strada all’uso della forza militare o incentivare la diplomazia (gli accordi sul nucleare con l’Iran sono frutto di questo rapporto proficuo di sanzioni-diplomazia);
  3. Molto più semplicemente, perché non ci sono altre valide alternative.

USA-Iran: una storia di sanzioni lunga più di 40 anni

Pensare che le sanzioni iraniane siano cosa recente è profondamente sbagliato, così come è sbagliato attribuire le sanzioni alle sole amministrazioni repubblicane. Le prime sanzioni vennero imposte in occasione della crisi degli ostaggi in Iran del 1979, fu proprio a seguito di quell’evento che vennero imposte sanzioni finanziarie nei confronti della neonata Repubblica Islamica. Sanzioni che vennero incrementante in occasione dell’invasione in Iraq dell’84, quando si concentrarono soprattutto sul comparto militare: nasce così il cosiddetto ISA (Iran Sanctions Act) che con un cambio di denominazione è attivo tutt’oggi.

Né le amministrazioni repubblicane né quelle democratiche hanno mai eliminato le sanzioni nella loro completezza: negli anni novanta si colpì il settore petrolifero, vennero poi diminuite solo in parte nei primi anni duemila a fronte dell’impegno di diminuire l’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran, ma tornarono in pieno vigore quando Ahmadinejad (Presidente della Repubblica Iraniana dal 2005 al 2013 e conservatore) divenne presidente. Le sanzioni in questo caso colpirono soprattutto il settore bancario. Sotto la presidenza Obama, a seguito della lotta comune contro Daesh, vista la debolezza regionale della ex Persia che non costituiva in quel momento storico una minaccia di primo piano nella regione e attraverso la firma del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), le sanzioni sul nucleare vennero cancellate ma ne vennero istituite alcune di differente tipologia. Trump infine decise di uscire dall’accordo e di ripristinare le sanzioni nei confronti dell’Iran in un momento di grande espansione egemonica nella regione mediorientale da parte dell’Iran.

Tra i colpiti dalle sanzioni vi sono oggi numerose banche, i Pasdaran (il Corpo delle guardie della Rivoluzione Islamica) e numerose milizie sciite. A queste vanno aggiunte le cosiddette sanzioni secondarie che colpiscono invece qualsiasi paese si opponga al dettame statunitense e che cercano di impedire che si crei il primo problema delle sanzioni, problema di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente (quello della difficoltà a massimizzare il peso delle sanzioni).

Le sanzioni alla vigilia delle elezioni

In questi ultime settimane, post insediamento di Biden, si fa un gran parlare della possibilità di trovare un nuovo accordo su nucleare ma questo non deve essere scambiato per un gesto di buon cuore da parte del presidente neoeletto. Altri sono i motivi alla base di questi tentativi di negoziato: da parte statunitense l’Iran rappresenta oggi una minaccia secondaria in Medio Oriente. Un Medio Oriente in cui cercano da sempre di evitare l’insorgenza di una potenza egemonica: gli USA infatti stanno iniziando a guardare con crescente preoccupazione verso la Turchia che in questi ultimi anni ha iniziato a espandere la propria influenza lungo tutto il Mediterraneo (la presenza in Libia è solo una di queste mosse sullo scacchiere da parte di Ankara). Da parte iraniana invece trovare un accordo col governo statunitense è l’unica via, l’unica arma spuntata, che resta a Hassan Rouhani (presidente uscente e moderato) e ai moderati iraniani per evitare il tracollo elettorale e la vittoria alle prossime presidenziali dei partiti conservatori.

I conservatori hanno già vinto le elezioni legislative del 2020 con percentuali bulgare del 76%, l’economia è in profonda crisi, vive continue contrazioni del PIL di oltre il 6% e un crollo del mercato petrolifero sta trascinando al tracollo l’intero sistema economico: questi elementi fanno presagire una quasi certa vittoria di un ultraconservatore sostenuto dai militari come ai tempi di Ahmadinejad, qualcosa che i moderati iraniani e gli Stati Uniti vogliono evitare. Per questo i negoziati sono stati ripresi nonostante le diffidenze reciproche. L’impossibilità da parte di entrambi gli stati di perderci la faccia, e la necessità che sia l’altro a fare il primo passo, rallentano però il processo negoziale: tutto ciò mentre scorre inesorabile il tempo, le elezioni del prossimo 18 giugno si avvicinano e i conservatori si rafforzano ogni giorno che passa senza un accordo e il conseguente miglioramento delle condizioni di vita. Un paradosso e un’impasse che rischiano di costare caro.

Luigi Toninelli

Per approfondire

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