Marocco: anni di piombo

Il Marocco e i suoi anni di piombo 

Durante un arco temporale prolungato, il Marocco è stato teatro di un persistente ricorso alla violenza di stato, violenza che ha coinvolto diverse categorie di individui: dalla resistenza anticoloniale degli anni ’50 e ’60, all’opposizione contro il crescente autoritarismo del neonato stato indipendente, fino agli ufficiali militari e funzionari statali implicati in presunti tentativi di colpo di stato negli anni ’70, e infine ai leader politici, agli attivisti, agli studenti e ai cittadini comuni che manifestavano per rivendicare i propri diritti. Principalmente impiegata per reprimere ribellioni sociali e assicurarsi che il potere restasse nelle mani della monarchia, tale violenza ha raggiunto il suo apice negli anni ’60 e ’70, periodo in cui le promesse di progresso legate alla recente indipendenza, si sono scontrate con la delusione causata dalla crescente disoccupazione e dalla crisi economica.

Il periodo post indipendenza 

Tornato indipendente nel 1956 dopo essere stato un protettorato francese per più di quarant’anni, il Marocco diventa, con Mohammed V, uno dei primi stati dell’Africa francofona liberatosi dal giogo coloniale. Dopo una breve parentesi di governo socialista, con il partito Istiqlal di ispirazione repubblicana, anticoloniale e antimperialista, nel 1961 il potere tornò nelle mani della monarchia con re Hassan II, erede di Mohammed V, a discapito delle giovani forze politiche formatesi come reazione al dominio straniero che cercavano di affermarsi nel contesto postcoloniale.

In questo scenario, la società marocchina si trovò immersa in un palpabile fermento politico e sociale, evidenziato dalla crescente domanda di accesso all’istruzione per tutti e dalla fondazione, nel 1956, dell’Union Nationale des Étudiants Marocains (UNEM). Quest’ultima, riconosciuta come uno dei principali movimenti di opposizione politica dell’epoca e portavoce del mondo studentesco, divenne il catalizzatore attraverso il quale esprimere delusione e disagio nei confronti della corrente politica governativa. Scioperi e manifestazioni aumentarono al punto che, nel 1963, il governo condannò a morte Hamed Berrada, presidente dell’UNEM. Nel 1965 avvenne lo scontro più duro tra polizia e dimostranti: violenti moti insurrezionali scoppiarono su iniziativa di studenti, delusi dai provvedimenti governativi, ai quali si unirono migliaia di disoccupati. L’esercito intervenne duramente, causando diverse decine di feriti e 7 morti. È in questo frangente che Hassan II sciolse le camere assumendo definitivamente il potere, affermando che “non c’è pericolo più grave per lo stato dei cosiddetti intellettuali; sarebbe stato meglio se fossero stati tutti analfabeti”. La scena politica sarà da lui stata monopolizzata per i successivi anni.

I moti del 1984, in diverse città del paese si scese in strada per protestare contro la situazione economica e il regime di Hassan II.

Sanawāt al-raṣāṣ

Gli anni di governo di Hassan II, che vanno dal 1962 al 1990, sono ricordati come i sanawāt al-raṣāṣ, cioè gli anni di piombo, anni contornati da una politica repressiva, dall’eliminazione fisica degli oppositori al governo e da un disumano ricorso alla violenza volto ad assicurare il mantenimento del potere monarchico. E’ bene sottolineare che la dura linea politica di Hassan II fu resa possibile anche dai mezzi tecnici ereditati dal sistema politico coloniale francese. Infatti, il Marocco conservò proprio quelle leggi che le autorità coloniali francesi promulgarono per preservare la propria egemonia sui territori del Nord Africa. Tali meccanismi legislativi, misero in campo un vero e proprio regime autoritario, che prevedeva l’eliminazione per chi fosse rientrato nei sospetti reali come sovversivo, accompagnata alla tortura e alla sparizione. L’esistenza diffusa di tali pratiche fu inoltre resa legalmente possibile dal Codice di Procedura Penale che, di fatto, attribuiva un potere illimitato alla polizia normalizzando la detenzione in garde à vue, “a stretta sorveglianza”, ovvero il periodo di reclusione temporanea del sospettato in attesa che terminino le indagini per poter formulare un’accusa, durante il quale furono innumerevoli gli abusi registrati da parte dei corpi di polizia. 

Il caso marocchino si avvicina a quello delle guerre sudamericane, con i fenomeni dei desaparecidos: soprattutto fra il 1965 e il 1975, in Marocco la sparizione forzata diventò una pratica sistematica per eliminare gli oppositori al regime e terrorizzare la società. Le autorità puntavano sì a reprimere il dissenso, ma anche a occultarlo, quando possibile, con la negazione ufficiale del conflitto e con l’esibizione del consenso; a spezzare il silenzio intorno alle violenze di Stato contribuirono una ricca produzione letteraria di testimonianza e i riti pubblici di commemorazione dei prigionieri politici e delle persone scomparse messi in atto dalle vittime degli anni di piombo e  dalle loro famiglie. 

La maggior parte delle violenze degli anni di piombo è stata praticata in luoghi chiusi, alcuni addirittura mantenuti segreti per decenni, la  cui  esistenza  è  stata  negata  in  pubblico  sino all’ultimo,  anche  a  fronte  di  dirette  interrogazioni e testimonianze. Alcuni di questi luoghi erano vere e proprie prigioni o edifici fortificati molto isolati, altri erano edifici nel bel mezzo di rotte turistiche o anche aree del centro città: ville, fattorie o case private. La maggior parte non era citata nel registro dei centri di detenzione ufficiali del Ministero dell’Interno, e in altri casi, i prigionieri venivano detenuti segretamente in carceri ufficiali, senza accesso al mondo esterno. I centri di detenzione segreti più noti furono Tazmamart, costruita appositamente per coloro che erano coinvolti nei tentativi di colpo di stato del 1971-1972 e votata, si diceva, alla “lenta morte dei suoi detenuti”, e Derb Moulay Cherif, centro di detenzione segreto a Casablanca usato principalmente per prigionieri politici, processi segreti e torture. 

Tentativi di rovesciamento della monarchia

Se sul piano sociale e studentesco la situazione era accesa, sul piano delle lotte non era da meno. Tra il 1971 e il 1972 si verificarono due tentativi di colpo di stato condotti da membri dell’esercito, che aggiunsero instabilità alla situazione politica, già di per sé fragile. Il primo tentativo avvenne il 10 luglio 1971, nel giorno del compleanno di re Hassan II, quando all’incirca mille, tra ufficiali e sottufficiali, cercano di rovesciare il potere facendo irruzione nella residenza estiva del sovrano. Il bilancio fu un vero massacro: un centinaio di morti e circa duecento feriti. Si assistette al secondo tentativo nell’anno successivo, quando un gruppo di aviatori originari del Rif (regione montuosa del Marocco settentrionale) attaccarono in volo il Boeing che trasportava il re, di ritorno dall’Europa, verso Rabat. Anche questa volta, Hassan II uscì illeso dall’evento, e rimase profondamente deluso che simili azioni fossero state dirette da persone a lui particolarmente vicine, come nel caso di Mohamed Oufkir, Ministro della Difesa e Generale maggiore delle Forze Armate Reali, uomo di fiducia di Hassan II.

L’aereo sul quale viaggia Hassan I, in alto si notano le usure causate dal lancio dei razzi.

Il caso della famiglia Oufkir

La figura di Mohamed Oufkir durante il regno di Hassan II in Marocco è estremamente complessa e controversa. Inizialmente, Oufkir fu un fedele collaboratore del re, svolgendo un ruolo chiave all’interno del governo e dei servizi segreti. 

Tuttavia, negli anni ’70 la sua posizione e il suo atteggiamento nei confronti del regime cambiarono radicalmente, arrivando ad orchestrare, come precedentemente citato, un attentato alla vita di Hassan II nel 1972 tramite un attacco via aerea. Sebbene non riuscito nel suo intento di uccidere il re, tale gesto fu un atto di sfida senza precedenti al potere del monarca.

Non stupisce che la morte di Oufkir avvenne nello stesso anno: secondo la versione ufficiale, il generale si suicidò, ma permangono numerosi dubbi sul fatto. Alcuni sospettano che sia stato assassinato con il consenso o la partecipazione del re stesso, ma ciò che è ancora più sconvolgente è la sorte subita dalla sua famiglia dopo la sua morte. 

La famiglia di Oufkir, che ovviamente frequentava la corte makhzeniana e vantava un ruolo di primo piano nell’alta società marocchina, era composta dalla moglie, Fatima, e dai 6 figli, e fu soggetta a un trattamento crudele e ingiusto da parte del regime.

Dopo la morte del generale furono ‘dimenticati’ da tutti i loro amici e conoscenti, la loro casa fu assediata, furono messi sotto sorveglianza poliziesca e successivamente trasferiti in carceri nascoste nei luoghi più remoti del Marocco, note come Les Jardins du roi, dove rimasero imprigionati per vent’anni in condizioni inumane.
Questo atto di vendetta non solo contro Oufkir, ma anche contro la sua famiglia, dimostra l’estrema brutalità e la mancanza di scrupoli del regime nel punire coloro che osavano sfidare il potere. Il dramma di queste persone si consumò in silenzio.

Nell’atmosfera repressiva di quegli anni chi sapeva non denunciò, a testimonianza del clima di paura e intimidazione che permeava la società marocchina. Il silenzio fu interrotto solo nel 1990 con la pubblicazione del tanto contestato libro di Gilles Perrault Notre ami le roi, opera che ha gettato luce su una serie di abusi e soprusi che erano rimasti nascosti per anni. La sua pubblicazione fu proibita in Marocco e l’autore fu accusato del crimine di lesa maestà, ma nonostante il tentativo del regime di sopprimere la verità, l’impatto del libro è stato significativo. Ha contribuito ad aumentare la consapevolezza sulla situazione politica e sociale del Marocco, spingendo per un cambiamento politico che era ormai diventato inevitabile. 

L’affaire Ben Barka

Militante del partito Istiqlal e poi leader dell’Unione Nazionale delle Forze Popolari (UNFP), partito politico a sfondo socialista, Mehdi Ben Barka è uno dei personaggi politici più importanti della storia del Marocco contemporaneo. Brillante intellettuale rivoluzionario di modeste origini familiari, si affermò come il principale leader dell’opposizione, coinvolto in diversi tentativi di rovesciare la monarchia marocchina con lo scopo di creare un sistema democratico all’indomani

dell’indipendenza del Paese. Soprattutto dopo la presentazione della sua opera L’Option révolutionnaire al Congresso dell’UNFP, egli divenne il nemico numero uno del makhzen. In tale scritto, infatti, Ben Barka presentò un progetto di riforma politica, economica e sociale del Paese che rivoluzionava completamente il sistema societario su cui le varie forze politiche si erano accordate in fase di costruzione nazionale. Grazie alla sua presa sulla popolazione, divenne il mirino di diversi avversari politici e di un sistema di polizia che agiva per conto della monarchia. 

Il suo attivismo, lo portò a una duplice condanna a morte in contumacia e, successivamente, ad un forzato esilio a Parigi, da dove continuò comunque a cercare il sostegno alla propria lotta in patria. Nel 1965 fu incaricato di organizzare la conferenza tricontinentale dei movimenti rivoluzionari all’Avana, prevista per il 1966, fatto che convinse Hassan II a prendere dei provvedimenti per riportarlo a tutti i costi in Marocco. Con la scusa di voler organizzare un’intervista come parte di un documentario sulla decolonizzazione, venne contattato da due giornalisti, che l’avrebbero incontrato di persona a Parigi. Ben Barka accetta e, il 29 ottobre 1965, mentre si dirigeva verso un pranzo per incontrarli, fu avvicinato da due uomini che gli presentarono i distintivi, dicendo di essere della polizia, e lo misero in una Peugeot 403 senza contrassegni. Da quel momento in poi, Ben Barka non sarà mai più visto e il suo corpo non verrà mai ritrovato.

Dopo questo episodio, molti militanti del partito UNFP verranno arrestati, arbitrariamente, detenuti illegalmente in luoghi segreti o semplicemente fatti sparire. Centinaia di marocchini sono morti a causa delle diffuse violenze, moltissimi fra i sopravvissuti  hanno subito per anni, in totale segretezza, la detenzione in luoghi che erano essi stessi strumenti di tortura. 

Le violenze inflitte agli oppositori politici marocchini rientrano a tutti gli effetti fra i reati oggi classificati come violazioni dei diritti umani.

Alessandra Soldi

Bibliografia 

  • Roggero, Caterina, Storia del Nord Africa indipendente, Bompiani, 2019.
  • Foi, Maria Carolina (a cura di), Diritto e letterature a confronto. Paradigmi, processi, transizioni, EUT Edizioni Università di Trieste, 2021.
  • “Studi Urbinati” in Rivista trimestrale di Scienze Giuridiche, Politiche ed Economiche, n° 72, 1-2, 2021.
  • Menin, Laura. “Scomparsi (mkhtafyin)”: violenza, attesa e letteratura di testimonianza nelle sparizioni forzate nel Marocco degli “anni di piombo” in Antropologia, vol. 3, n. 2, ottobre 2016.

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